Nella Premiership inglese
Parla Marco Bortolami, primo head coach italiano di rugby all’estero: “Sono orgoglioso, il nostro movimento deve continuare a crescere. Sogno la Ferrari”
Dopo nove anni, di cui gli ultimi quattro da capo allenatore a Treviso, l'ex seconda linea e capitano della Nazionale guiderà i Sale Sharks. "L'arrivo in Inghilterra è stato molto naturale, così come lo è stato il mio percorso. Lascio un club in salute, al quale sono legato da meravigliosi ricordi. Da ingegnere e appassionato di motori amo il Cavallino Rampante"
Interviste - di Andrea Aversa

È stato il capitano più giovane della Nazionale italiana di rugby, con 115 caps – presenze – è stato il giocatore che più volte ha indossato la maglia azzurra, superato poi soltanto da Sergio Parisse. E proprio come la terza linea italoargentina, Marco Bortolami – 45 anni, di Padova e laureato in ingegneria – è stato ed è ancora una delle colonne dell’Italrugby. Lo è stato in campo, nel ruolo di seconda linea, quello che infila la testa tra i fianchi dei piloni in mischia, sempre pronto a ‘comandare’ la touche (la rimessa laterale). Lo è tutt’oggi da allenatore, non solo per gli straordinari risultati ottenuti a Treviso con la Benetton (dove in nove anni, cinque da assistente e quattro da capo allenatore, ha ottenuto: due finali di Challenge Cup, i play off e i quarti di finale di Champions Cup) ma soprattutto perché dal prossimo anno allenerà nella Premiership inglese.
Marco Bortolami ai Sale Sharks in Premiership: è il primo head coach italiano di rugby ad allenare all’estero
‘Figlio d’arte’ (anche il papà è stato rugbista), Bortolami – infatti – sarà il primo head coach italiano di rugby della storia ad allenare all’estero. E lo farà a Sale, Manchester, per la prestigiosa squadra dei Sale Sharks. Questi ultimi in bacheca hanno una Premiership e due Challenge Cup. Bortolami ha già avuto, da giocatore, un’importante esperienza in Inghilterra. L’ex seconda linea della Nazionale, infatti, ha giocato a Gloucester quattro anni, dal 2006 al 2010, diventando anche capitano. Nel mezzo, dopo gli inizi a Petrarca, l’avventura in Francia a Narbonne e la chiusura della carriera da giocatore tra le file degli Aironi e delle Zebre. Per lui anche la convocazione nella leggendaria selezione dei Barbarians. Ma il sogno del cassetto di Bortolami non è ‘ovale’. Come ha lui stesso rivelato in questa intervista rilasciata a l’Unità, la sua aspirazione – da appassionato di motori – è quella di poter lavorare un giorno in Ferrari.
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Intervista a Marco Bortolami, ex capitano e pilastro della Nazionale
Cosa si prova ad essere il primo capo allenatore italiano in assoluto che allena l’estero in un club come quello di Sale in Premiership?
“Beh, guarda, devo dire che c’è un misto di emozioni e di sensazioni. Ovviamente ne sono orgoglioso, dal punto di vista personale: da un lato perché ricopro per la prima volta questo ruolo e dall’altro sto provando tanto entusiasmo. Non vedo l’ora di misurarmi con le sfide che mi aspettano. Già ho assaggiato, nelle prime riunioni che abbiamo fatto con il nuovo staff, cosa vuol dire affrontare questa esperienza. Sono consapevole di quanto importante sarà questa avventura, sia per me che per il rugby italiano e questo mi dà anche molta responsabilità“.
Ci puoi raccontare qualche retroscena in merito alla trattativa che ti ha portato in Premiership?
“Il fatto che abbia giocato a Glouchester, dal 2006 al 2010, ha fatto si che già conoscessi il campionato inglese. Negli anni ho continuato a seguire la Premiership, l’evoluzione tecnica dei giocatori e sono sempre stato in contatto con alcuni allenatori, tra cui proprio Alex Anderson che è il Director Rugby di Sale. Negli ultimi quattro anni, quando io sono diventato il coach di Treviso, abbiamo condiviso tanto in termini di metodologia: come affrontare le sfide, che sono simili per tutte le squadre – al netto di alcune specificità – e questo ha creato un legame molto forte tra noi. Abbiamo capito che condividiamo la stessa visione anche sul come gestire una squadra. Così, quando al termine di questa stagione è finito il mio percorso a Treviso, lui si è fatto vivo e in maniera abbastanza veloce, abbiamo capito che erano l’occasione e il momento giusti per collaborare. Già in passato quando ci siamo trovati a chiacchierare, avevamo sempre pensato che un giorno avremmo iniziato a collaborare assieme. Questa particolare sintonia ha fatto si che, nel momento in cui è sorta questa opportunità, entrambi non abbiamo avuto alcun dubbio“.
Cosa lasci a Treviso in termini emotivi e tecnici dopo nove anni nello staff tecnico, di cui quattro da capo allenatore?
“Lascio, penso, un club in salute. Un club che ha cambiato il modo in cui gli altri ci guardano. Abbiamo raggiunto due finali di Challenge Cup, l’anno scorso abbiamo raggiunto i play off, quest’anno abbiamo raggiunto i quarti di finale di Champions Cup, la prima volta nella storia. Per cui in questi quattro anni c’e stata una crescita continua, aspetto fondamentale se vuoi porre delle basi solide. Credo che il lavoro svolto da me, da tutto lo staff e dalla società, abbia permesso il raggiungimento di questo obiettivo. Poi i giocatori sono stati bravi nelle loro performance sul campo. Lascio, ovviamente, anche tanti ricordi, molti risultati e solide fondamenta sulle quali cui il club può continuare a costruire“.
I recenti e ottimi risultati di Treviso e della nazionale hanno dimostrato che il rugby italiano è in buona salute. Cosa manca ancora secondo te per ottimizzare questa crescita?
“Treviso è di sicuro in un trend di di crescita. La nazionale l’anno scorso aveva fatto un’ottimo Sei Nazioni, quest’anno un po’ meno, gli è mancato qualcosa. Credo che se si vuole essere continui come movimento tutte le parti devono essere al loro posto. In questo momento comunque noi stiamo rincorrendo degli avversari che sono molto avanti nella cultura rugbistica e nella formazione dei giocatori. Però non siamo lontanissimi e la qualità del lavoro che si fa, unita alla sinergia di tutti coloro che fanno parte del movimento – a tutti i livelli – sono la ricetta vincente. Stiamo parlando di un work in progress, un processo che non deve mai fermarsi ma, anzi, deve evolversi. Ad esempio, quello che ho già percepito a Sale, durante le prime riunioni alle quali ho partecipato, è sicuramente una realtà simile a quella di Treviso, quindi di altissimo livello. Ma anche molto diversa nella sostanza e nella profondità in cui si analizzano i vari aspetti, si affrontano le sfide e la mentalità con cui si vuole provare a crescere e andare in una certa direzione. Spero di essere arrivato qui proprio per questo motivo: per riuscire a essere un valore aggiunto. Forse a noi manca ancora la capacità di poter esplorare il nostro massimo potenziale e credo che debba essere questo l’obiettivo“.
In che modo ti aiuterà l’esperienza che hai fatto da giocatore e capitano in Premiership, a Gloucester?
“Nel comprendere la loro cultura, il loro modo di pensare, il loro modo di vivere il rugby che è particolare, anche se la Premiership sta evolvendo molto velocemente, anche come stile di gioco, si sta aprendo molto di più, ma la loro natura, il loro modo di intendere il rugby rimane sempre molto inglese, per cui già conoscere l’ambiente, magari non proprio della squadra in sé, ma l’ambiente un po’ più allargato, ti dà la possibilità di possedere delle chiavi di lettura. Inoltre, posso dire di avere molte affinità con questo modo di intendere il rugby, le avevo da giocatore e continuo ad averle oggi da allenatore. Insomma, mi sento a casa. È chiaro che poi devi imparare a conoscere i giocatori nel profondo, conoscere gli altri allenatori. Si tratta di un processo che sarà iniziale e veloce ma molto importante, perché poi tutto va calato nella specificità della realtà in cui stiamo“.
Da piccolo sognavi un giorno di entrare a far parte dello staff della Ferrari. Poi, invece, ti sei ritrovato con l’ovale tra le mani. Come e quando hai iniziato a giocare a rugby?
“Ho iniziato a giocare a rugby quando avevo dieci anni. Sono nato a Padova, una città dove non è affatto difficile trovarsi con una palla ovale tra le mani. Poi mio padre era un ex giocatore e piano piano sono iniziato a crescere, in modo graduale, all’interno del mio club di origine. In seguito ho partecipato alle selezioni nazionali giovanili fino a fare il mio debutto in nazionale maggiore e diventare anche il più giovane capitano di sempre. È stata una progressione abbastanza naturale e durante questo percorso, non nascondo che il mio sogno è sempre quello di lavorare per la Ferrari. Sono un grande appassionato di motori, per questo mi sono laureato in ingegneria. E non si sa mai, magari in futuro, magari in un ruolo di gestione del team, di gestione di alcune e precise dinamiche, potrei trovare una posizione giusta per me. Mi piacerebbe molto“.
Che ricordo hai del tuo esordio nazionale?
“Molto particolare perché avvenne in tournée in Namibia. In quell’occasione giocammo contro il Sud Africa. Quando sei giovane tutto è nuovo, tutto è fantastico e lo ricordo ancora in maniera molto viva, molto chiara. È stato l’inizio di un lungo e straordinario percorso. Ho giocato con l’Italia 115 partite, 39 da capitano. Quindi la Nazionale ha segnato la mia crescita, come giocatore e soprattutto come uomo. Ho dei ricordi meravigliosi. Tanti amici, quando è uscita la notizia del mio arrivo a Sale, si sono fatti vivi per complimentarsi. Hanno richiamato i vecchi tempi passati insieme. E sono proprio questi rapporti che durano nel tempo ad aver reso indimenticabile la mia esperienza da giocatore“.
Se dovessi citare un ricordo in particolare della tua carriera, qual è quello che ti viene in mente con piacere e qual è, invece, quello che vorresti dimenticare?
“Ricordo con piacere, di sicuro, la mia prima partita da capitano in Nazionale contro gli All Blacks. Segnai anche la mia prima meta con l’Italia. E poi non posso non parlare delle due vittorie ottenute nel Sei Nazioni, contro Galles e Scozia nel 2007. Fu la prima volta nella storia della Nazionale che si riuscirono a vincere due partite consecutive del prestigioso torneo. Quei successi scatenarono un exploit mediatico nei confronti del rugby in Italia che fece avvicinare migliaia di persone a questo sport. Da dimenticare direi nessuno, perché le nostre partite sono state anche molto difficili e credo che anche quei momenti sono stati delle buone occasioni per crescere e migliorare. Non ho nessun rimpianto o rimorso in questo senso“.
Hai giocato con i Barbarians, cosa ha voluto dire per te?
“È stato un riconoscimento molto importante, anche a livello internazionale, del giocatore che ero diventato. È stata una grande opportunità per giocare insieme ai migliori rugbisti del mondo che prima di allora avevo affrontato solo in veste di avversario. Di sicuro, far parte di quella selezione, è stato un momento speciale, una pillola indelebile della mia carriera“.