"Quale Europa vogliamo?"
La lezione di storia di Beppe Vacca: “Non c’è futuro per la sinistra schiava dell’oltranzismo atlantico”
«Trump ha rotto il luogo comune secondo cui esiste una nozione univoca di Occidente, ha mostrato che tra Usa ed Europa c’è un antagonismo di interessi, una divergenza di prospettive strategiche». «Il via libera al riarmo della Germania riapre la questione del completamento del processo europeo. Ma il primo nodo da sciogliere è: la Russia è parte dell’Europa o no?»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli

Più che una intervista impegnata, la sua è una lezione di alta politica e storia che mette all’angolo le polemiche di bottega interna che hanno intasato giornali e talkshow. A regalare questa “lezione” alle lettrici e ai lettori de l’Unità è Beppe Vacca, una vita, politica e intellettuale, a sinistra. Professore emerito di Storia delle dottrine politiche all’Università di Bari, già direttore dell’Istituto Gramsci, Vacca è stato più volte parlamentare del Pci. In libreria il suo ultimo libro: Astratti furori e senso della storia. Politica e cultura nella sinistra italiana 1945-1968 (Viella Editore).
Professor Vacca, che Europa è quella che emerge dal Libro Bianco sulla Difesa di Ursula von der Leyen e dal dibattito, spigoloso e divisivo a sinistra, che ne è seguito?
Forse bisognerebbe dire che Europa può venirne fuori. E questo credo che dipenda dai due avvenimenti più significativi determinati dalla nuova presidenza americana.
Non c’è dubbio che per alcuni aspetti, di cui dirò subito, la presidenza Trump segna uno spartiacque. Innanzitutto, perché rompe, credo definitivamente, una falsa narrazione sull’Occidente, cioè la narrazione per cui ci sarebbe una nozione univoca di Occidente. Invece non è così. Trump ha il “merito” di evidenziare come fra Stati Uniti ed Europa ci sia un antagonismo attivo di interessi, una divergenza di prospettive strategiche, non da ora, ma sostanzialmente dagli anni ’70 in poi. Quindi rompe un luogo comune della narrazione da cui siamo avvolti per tutto quello che riguarda la guerra russo-ucraina e non solo. La seconda cosa che è avvenuta è il via libera al riarmo tedesco. Questi sono due mutamenti di paradigma d’impatto sistematico sullo scacchiere euroatlantico e anche oltre esso.
E tutto questo che ricadute ha avuto o potrà avere per l’Europa e sull’Europa?
Il problema che si è riaperto, almeno in apparenza, è quello di completare il processo europeo, quindi di andare oltre Maastricht, avere una politica estera comune e una politica di difesa che poi significa una difesa comune. Questo problema è diventato prioritario e concreto, perché non si poteva pensare a una difesa comune europea fino a che non fosse sbloccata la situazione tedesca. Rilegittimare il riarmo della Germania significa varie cose…
Vale a dire?
Beh, significa da un lato portare a compimento un processo avviato dalla riunificazione tedesca, dalla caduta del Muro di Berlino, dalla riunificazione delle due Germanie, resa possibile fondamentalmente dalla politica di Gorbaciov, e nello stesso tempo, riaprire una questione cruciale che forse è il principale dei problemi che abbiamo di fronte, sia rispetto alle prospettive di edificazione dell’Europa sia rispetto alle sorti dell’ “Occidente”. Problema che può essere brutalmente sintetizzato con una domanda…
Quale, professor Vacca?
La Russia è parte dell’Europa o no? Questo è il primo nodo da sciogliere, perché è un problema che ci portiamo appresso dagli anni Venti, cioè da un secolo e che adesso pareva ricevere una risposta univoca, nel senso che a seguito dell’invasione dell’Ucraina e del saldarsi di una unità euroatlantica in difesa dell’Ucraina invasa e contro la Russia di Putin, la questione sembrava fosse risolta, cosicché anche la ripresa del tema della difesa ha come intonazione quella di definire il nemico, il nemico prossimo, il nemico per eccellenza, individuato nella Russia di Putin. Questa narrazione, che ha avuto una sua acme nella manipolazione dei media ma anche nella realtà delle politiche inter-occidentali negli ultimi tre anni, mi pare messa seriamente in discussione dalla svolta di Trump. Se si vuole, è svolta fino a un certo punto, perché può sembrare la continuazione della strategia americana risalente quanto meno agli inizi della presidenza Biden, tutta centrata sull’impedimento alla Russia di tornare ad essere un player globale, quindi centrata sull’idea che non solo il nemico è la Russia ma che sostanzialmente l’Occidente si può unificare in chiave russofobica perché quello è il Nemico, e che la riduzione della Russia a potenza locale e non globale, fosse un fatto definitivo. L’andamento della guerra in Ucraina ha vanificato tutto questo, perché la grande coalizione occidentale è stata sconfitta. Non l’Ucraina di Zelensky, che non è mai esistita come soggetto politico autonomo, ma la coalizione che si era formata in occasione dell’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca, narrando addirittura, da un certo punto in poi, che quella coalizione poteva vincere e finalmente smembrare la Russia e spartirla, levando di mezzo Putin una volta per sempre.
Qui s’inserisce il tycoon di Washington…
Trump realisticamente prende atto che questo obiettivo era “eccessivo” e nello stesso tempo riattiva una relazione con Mosca che sta nella tradizione di tentare di distinguere le relazioni con la Russia in funzione anticinese, cioè di tornare ad un ordine mondiale in cui rinasce un bipolarismo, stavolta fra Washington e Pechino, mentre la Russia non potrebbe più tornare ad essere una grande potenza. Questa è stata la politica americana, ma non solo americana, degli ultimi decenni. Cosa non più vera da quando Putin si è consolidato al potere in Russia, mostrando di essere in grado di far valere gli elementi di grande potenza della Federazione russa, cioè la sua potenza militare e atomica. Ripristinare questo ruolo in funzione anti-Cina, come se questo servisse a separare e distinguere Mosca da Pechino, è il Wishful thinking della leadership occidentale, nella misura in cui si possa parlare di una leadership occidentale, che di fatto non c’è, per l’asseveramento, una volta per tutte, di una crescente divergenza strategica d’interessi fra gli Stati Uniti e l’Europa. Un Wishful thinking, perché in realtà, se volessimo dare una immagine d’insieme del processo a cui stiamo assistendo, io direi che sono le doglie del parto di un fatto ormai molto evidente…
Quale fatto?
Il secolo in cui siamo entrati da venticinque anni, è il secolo dell’Asia. Il problema vero è che l’Asia si è organizzata, si sta vieppiù organizzando per emergere come altro soggetto della politica mondiale con evidenti ambizioni e capacità egemoniche. Da questo punto di vista, l’alleanza strategica che si salda fra Putin e Xi Jinping, a partire dal 2008, rende fittizio il distinguere, quando si fa riferimento alle politiche globali di queste due potenze, l’una dall’altra come se fossero soggetti distinti e separati. In realtà tendono ad agire come un unico soggetto che ha come obiettivo strategico, epocale, quello di guidare il processo di emersione globale dell’Asia. Dal 2008, perché da quell’anno – rifiutata la possibilità di una riorganizzazione delle relazioni economiche e politiche internazionali attraverso l’eliminazione dei principali elementi di conflitto e di antagonismo, una nuova Bretton Woods, prevalsa la linea di continuità della narrazione americana – si cercò di scaricare gli effetti della crisi dei subprime sulla Russia fino a distruggerla. A quel punto intervenne la Cina che non solo salvò Mosca ma stabilì un’alleanza strategica che la guidò nel processo di emersione mondiale dell’Asia. E qui entra in gioco la Russia di Putin…
In che senso?
Un passo indietro nel tempo. La Russia, che negli anni Novanta, gli anni di Eltsin e della prima Guerra del Golfo, era effettivamente ridotta a potenza minore, locale, fino al riconoscimento da parte di Eltsin di questa riduzione e dell’accettazione della subalternità russa all’Occidente; ebbene, questa prospettiva viene rovesciata, e comincia un altro percorso che è quello della costruzione della Russia di Putin. Che non è cosa da poco se soltanto gli osservatori occidentali volessero dedicare maggiore attenzione a quello che i russi, ma soprattutto i russi e i cinesi insieme hanno fatto all’interno dei paesi asiatici, saldando e sviluppando vincoli di interdipendenza attiva e accelerando processi di modernizzazione, che in Russia, e per altri versi in Cina, si possono sintetizzare nella cura della crescita di nuovi ceti medi. In questa prospettiva, il problema del completamento del processo europeo, se apparentemente compare come un Heri dicebamus, un completamento di un processo rimasto interrotto dai tempi del Trattato di Maastricht e della fine dell’Unione Sovietica e delle guerre conseguenti, in realtà assume nuovi lineamenti, perché si coniuga con il riconoscimento, e questa è l’altra grande novità, del diritto della Germania a riarmarsi. Il che rende credibile un progetto di difesa comune europea, in quanto fa superare il primo ostacolo di carattere sistemico. Nello stesso tempo, che tipo di difesa? Qui torna il grande nodo da sciogliere: quale Europa vogliamo. Da quale risposta si dà a questo tema, discende tutto il resto. A cominciare dal legame che viene definito tra lo sviluppo di una difesa comune europea e l’ispirazione del processo europeo, cioè quello dell’Europa potenza civile, una potenza che non ha bisogno di armarsi in proprio se non altro perché fa parte della Nato, e che però diventa un competitor sempre più incisivo nelle relazioni di potenza, in quelle economiche e culturali. Che Europa vogliamo, significa anche che ordine internazionale vogliamo contribuire a costruire. Rendo concreta questa affermazione con degli esempi, se le pare il caso.
Assolutamente sì, professor Vacca.
Nasce una difesa comune europea? Questo vuol dire di fatto, non so in quali modi poi si potrà svolgere, una revisione della organizzazione politica complessiva delle relazioni mondiali. Attualmente, il “cielo” sotto il quale tutti apparentemente siamo, è quello delle Nazioni Unite. La possibilità delle Nazioni Unite di funzionare come comunità sovranazionale, coerente con la situazione del mondo post ’45, cioè con un mondo nel quale la guerra non può più essere concepita come prosecuzione della politica con altri mezzi, in quanto si è entrati nell’era atomica, perché questo è il punto: per essere adeguata e funzionale ai tempi, l’Onu deve darsi un ordine integrativo, supplettivo, rispetto a quello ancora oggi funzionante. Quello che potrà diventare l’Onu, o quello che lo sostituirà, nella misura in cui crescerà una Europa potenza civile compiuta, con una unità politica e una difesa comune, dovrà risolvere questioni non da poco. Nell’organizzazione dell’Onu, creata dalla Seconda guerra mondiale, abbiamo un organo fondamentale per decidere, il Consiglio di sicurezza, nel quale siedono ben due paesi europei, la Francia e il Regno Unito. C’è poi la Cina, che da nazionalista era diventata rivoluzionaria, gli Stati Uniti e la Russia. In una riorganizzazione della governance mondiale delle relazioni internazionali, con una Germania che è legittimata a riarmarsi e che di fatto diviene il perno del proseguo della costruzione europea, ispirata ai principi originari di potenza civile, potenza di pace, e quindi difesa e non armamento purchessia, e non competitività negli armamenti, chi rimane nell’organismo che sostituirà-integrerà il Consiglio di sicurezza? È pensabile che questo processo sia così semplice come sembrerebbe ritenere l’euforia per il riavvicinamento dell’Inghilterra? È pensabile che prima o poi si sciolga il problema della Francia, che se le togli il suo seggio al Consiglio di sicurezza, che se ne fa della sua relativa deterrenza atomica? E in che rapporti staranno queste tre potenze europee – Francia, Gran Bretagna e Germania – in un mondo nel quale comunque l’Europa è destinata a pesare per il peso relativo della sua popolazione e della politica che fa? Perché quanto più s’imbarca in politiche di guerra, tantomeno cresce la sua prospettiva.
In questo scenario globale, che ruolo può avere la sinistra europea?
La sinistra europea è forza di governo in gran parte dell’Europa. Il problema è come ragiona. Secondo quale narrazione vive i processi di cui è parte. Da questo punto di vista, noi soffriamo di una debolezza antica della socialdemocrazia europea.
Di quale debolezza si tratta?
La sua debolezza in politica estera. La socialdemocrazia ha una grande storia per quanto riguarda la costruzione del Welfare europea, ma è molto difficile sentire dirigenti e leader socialdemocratici che abbiano grandi visioni politiche, se si eccettuano, per dire, Willy Brandt, Olof Palme. Non a caso neutralizzati da un’azione convergente di Stati Uniti e Unione Sovietica negli anni Settanta, quando con la fine del sistema di Bretton Woods si passa dal dollaro espressione di una capacità egemonica americana al dollaro come moneta nazionale che tuttavia funge come principale come mezzo di pagamento per gli scambi, apprezzabile o deprezzabile a discrezione degli interessi politici della potenza americana. Si passa ad un altro ciclo della storia, che è quello del conflitto economico mondiale, che finirà per generare la rivoluzione neoconservatrice. Perché la sinistra europea possa contare di più, sarebbe necessario che fosse dotata di una propria narrazione della storia mondiale, effettiva, non propagandistica e subalterna, per cui non possa più succedere quello che di recente si è verificato, quando Putin invade l’Ucraina, il primo partito che gli si schiera contro in nome di un oltranzismo atlantico, è il Pd. Non perché gli si schiera contro, ma perché lo fa in nome di un oltranzismo atlantico, cominciando così una storia di oscillazioni che dà conto di un pluralismo non risolto delle sue componenti e che io credo non si possa risolvere se non si fa i conti con le narrazioni. Perché se rimane sullo sfondo la narrazione dominante, per cui con la fine dell’Unione Sovietica siamo entrati in un’epoca di egemonia americana in un sistema sostanzialmente unipolare, nel quale l’egemonia americana corrispondeva al fatto che aveva vinto per sempre la democrazia su ciò che non era tale, salvo poi vedere cosa s’intende con questo termine; che aveva vinto il mercato dando anche questo come un dato di fatto acquisito e scontato, se resta subalterna a questa narrazione, la sinistra non ha futuro. Questa narrazione troppo superficiale è stata funzionale all’allargamento dell’Europa, perché l’allargamento non poteva avvenire rielaborando soltanto, come valore fondativo dell’Unione Europea, l’antifascismo. Doveva rielaborare in una certa misura anche l’anticomunismo per quello che erano i paesi dell’Europa orientale. Ma sostituire l’antifascismo con l’antitotalitarismo è una bella regressione formalistica, da politologi e non da grandi politici che porta alla sostanziale indifferenza fra antifascismo e anticomunismo, e a legittimare lo smantellamento delle istituzioni internazionali costruite sulla base dell’antifascismo.