Dal 10 marzo

Il Gattopardo secondo Netflix, la serie tv: è ormai una cover, una cosa buona di pessimo gusto

Il confronto con l’affresco di Visconti è inevitabile. Dove c’era Burt Lancaster oggi c’è Kim Rossi Stuart. Non poteva che diventare un serial, un racconto che negli anni è diventato materia pop per i colti da social

Spettacoli - di Fulvio Abbate

10 Febbraio 2025 alle 10:35

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Il Gattopardo secondo Netflix, la serie tv: è ormai una cover, una cosa buona di pessimo gusto

Il Gattopardo, non esattamente il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, dove si racconta dell’aristocrazia siciliana, il suo precipitoso declino nei giorni dell’ingresso trionfale di Garibaldi e con le “camicie rosse a Palermo, ancor prima di essere un dominio letterario con retrogusto filosofico al Marsala, va ritenuto, diremmo con Guido Gozzano, tra le vincenti “cose buone di pessimo gusto”. Sia letterario sia cinematografico, e ora, merito o colpa di una serie Netflix in uscita, anche televisivo.

Si pensi inizialmente al film come a un arazzo tra impressionismo e realismo infuocato dallo scirocco, intessuto da Luchino Visconti. Alain Delon e Claudia Cardinale, ricamati sullo schermo, insieme a Burt Lancaster, frac e tuba neri propri del principe di Salina. Gattopardismo, dai primi anni Sessanta, è anche una categoria interpretativa dello spirito storico e socio-politologico, approssimazione dialettica per indicare il trasformismo, la “cupiditas serviendi” rispetto all’oscillare del potere amministrativo in modo quasi ontologico, così nei borghi e perfino nelle contrade di Trinacria. Non è un dettaglio apprendere che le spoglie mortali di Tomasi, scrittore inedito in vita, principe di una ormai remota Lampedusa, da qualche anno siano state traslate dal Cimitero dei Cappuccini nella chiesa palermitana di San Domenico, Pantheon cittadino, dove non meno memorialmente riposano sempre per l’eterno, fra gli altri, il generale di artiglieria Antonio Cascino cui si deve l’incitamento, rivolto ai suoi fanti, prossimo a un ossimoro: “Siciliani, siate la valanga che sale”, e, più di recente il giudice “martire” Giovanni Falcone.

Posti in un angolo della navata, a ridosso di una colonna secondaria, i resti di Lampedusa sono ora raccolti all’interno di un essenziale parallelepipedo di marmo chiaro che molto assomiglia al “cubo”, il pratico mobiletto, contenente una selezione ragionata dei titoli, che l’editore Einaudi all’inizio degli anni Novanta offriva come must culturale ai lettori, e non sembri questa una digressione: Elio Vittorini, nei primi anni Cinquanta consulente proprio dell’Einaudi rifiutò il romanzo, che sarebbe stato infine accolto da Giorgio Bassani, dunque pubblicato nel 1958 da Giangiacomo Feltrinelli con riscontro notevole immediato, la trasposizione al cinema da parte di Visconti, regista, certo, ma altrettanto fregiato dal titolo di conte di Lonate Pozzolo, verrà poco dopo… Forse non è un caso che proprio la Feltrinelli, nonostante la cifra politico-militante del “rivoluzionario” Giangiacomo, abbia scelto di onorare il settantesimo dalla fondazione con una “Giornata Gattopardesca”, dedicata in modo cerimoniale esattamente al racconto di Tomasi di Lampedusa, “un manoscritto – si legge – che Feltrinelli scese di pubblicare nonostante le accuse del tempo: per alcuni è un titolo fascista, per altri passatista”. Così surclassando il Diario del Che in Bolivia e Il dottor Zivago di Boris Pasternak, per menzionare altri bestseller apparsi sotto lo stesso marchio.

Il Gattopardo va ritenuto ormai un “must”, un “brand”, ben oltre la cifra letteraria, citarne il blasone, lo stemma, il cartiglio ideologico “Tutto cambi perché tutto resti com’è”, consegna perfino alla neo-plebe dei social una sicura patente di ordinaria convinzione intellettuale; d’altronde, restando in terra di Sicilia, non stupisca che l’imperatore Carlo V sia presente nel cuore di Palermo con una statua che lo mostra nel gesto di nominare “Todos caballeros”, tutti i cavalieri. Il brand, feticisticamente araldico, Gattopardo-Lampedusa torna ora, la data è il 10 marzo, non meno segnato dal fiammeggiante glamour trans-letterario con una serie Netflix interpretata, la prosa utilizzata da Vogue fa da sigillo all’intero proposito spettacolare indicando “un racconto epico, sorprendente e sensuale, ambientato in Sicilia durante i moti del 1860”, dove “al cuore della serie” troviamo Don Fabrizio Corbera (Kim Rossi Stuart), “l’indimenticabile Principe di Salina, che conduce una vita intrisa di bellezza e privilegio”, Angelica (Deva Cassel), suo nipote Tancredi (Saul Nanni) e l’adorata figlia Concetta (Benedetta Porcaroli). A quest’ultimo personaggio viene affidato, testuale, di “farsi portavoce di un messaggio proto-femminista di lotta al patriarcato, avrà uno spazio decisamente maggiore rispetto al ruolo ricoperto all’epoca da Lucilla Morlacchi”. Cancellando forse la mesta afflizione con cui Visconti la marchiava.

Facendo macchina, o forse più giusto dire carrozza indietro, c’è da immaginare che la “Giornata Gattopardesca” dell’anniversario feltrinelliano possa mostrare “principi” e “principesse” più significativi dell’attuale catalogo presentarsi, se non proprio rispettivamente in redingote e corsetto, a ballare insieme il “Valzer brillante” della colonna sonora, come ancora adesso accade a Villa Boscogrande, già location palermitana del film, agli sposi dopo il banchetto, anzi, il “trattenimento”; Michele Serra con la barba e i favori di Burt, alla più giovane Federica Manzon le trine di Angelica. Paradossi che non sono poi tali, resta ancora memoria di ciò che nel 1962 ebbe mondanamente a rappresentare la presenza del set di Visconti nel quodiano cittadino. Esemplare una foto dove Alain Delon, circondato dalle studentesse del liceo classico della Palermo “bene” – il “Garibaldi”, appunto – al bar di Villa Igiea (lo stesso luogo dove, decenni dopo, non meno paradigmaticamente, Francesco Totti, Del Piero a fargli da spalla, avrebbe girato uno spot per le sue barzellette) accompagnato dal ragazzo Pierre Clémenti, che nel film interpretava Francesco Paolo, il figlio del principe, appare divorato con gli occhi dalle fanciulle panormite.

Il caso ha voluto che mi trovassi a Palermo durante il set del remake Netflix, una sorta di “cover” ormai, se è concessa questa metafora discografica, nel senso che periodicamente il Gattopardo viene “replicato” in senso turistico. Ne rammento una versione teatrale, all’anfiteatro di Tindari nel 1978: Macha Méril-Angelica e l’attore prediletto da Pupi Avati, Gianni Cavina, nel frac del principe, tra impacci per i corsetti e l’accento siculo-emiliano del protagonista. Il set del remake-cover Netflix palermitano dei mesi scorsi, visto sempre con i nostri occhi, mostrava una voluttà produttiva milionaria. Tra le cupole rosse della chiesa della Martorana e via Maqueda comparse a ciuffi, ovunque, in camicia rossa e chepì garibaldini, accostati al momento della consegna dell’agognato liberatorio “cestino” da altri salariati giornalieri dello spettacolo in uniforme da “napoletani”, cioè soldati borbonici, poi dame con ombrellino degne di Monet e Renoir con la marlboro tra le labbra in attesa del ciak successivo, gentiluomini in tuba, e ancora “picciotti” con facce da fuorisede eterni del contado, nel 1860 così come adesso, parcheggiatori già abusivi truccati infine da borghesi attoniti secondo copione per l’avanzata dei “Mille”.

Esemplare la scena in cui le “camice rosse”, sollecitati dai macchinisti con berretto della squadra rosanero, avanzano verso i Quattro Canti, il Teatro del Sole presidiato dalle statue dei trascorsi re di una Spagna dominatrice, sventolando un tricolore a brandelli ai lati del “Dittatore” in sella, cioè Garibaldi, si sappia infatti che nel tempo risorgimentale quel titolo non assumeva valore dispregiativo, in molte targhe poste con orgoglio civico sulle facciate dei palazzi, dove proprio l’Eroe dei due mondi, accompagnato dal suo stato maggiore in uniforme colma di alamari, era stato accolto, quella dicitura era assai onorevole. Compreso sul muro della casa del barone Dario Evola a Balestrate, sebbene le cronache del tempo non ne riportino il transito. Ancora adesso non è ben chiaro quante rispettabili abitazioni siciliane, dopo la battaglia di Calatafimi, abbiano davvero accolto Garibaldi per blandirlo sollevando un bicchiere di marsala. Questa però è già un’altra storia, che racconta la capacità di accomodamento dei siciliani verso chi nel tempo li ha dominati.

Ci saranno, sì, che arriveranno, insieme alla serie Netflix, i doverosi raffronti tra Burt Lancaster, voluto da Luchino nonostante l’attore fino a quel momento avesse interpretato soprattutto il corsaro dell’Isola Verde o piuttosto il cowboy, e Kim Rossi Stuart che molti somaticamente invece assimilano a “Il Freddo” di “Romanzo criminale”, per non dire di Deva Cassel, tra spot Dolce & Gabbana e mamma Monica Bellucci. Ignoriamo quanti rampolli della residuale nobiltà cittadina, come accaduto sul set del 1962, siano stati cooptati per indossare l’uniforme d’aiutante di campo di Nino Bixio o del generale Giuseppe La Masa, su tutto resta che il Gattopardo, comunque lo si declini, ripeto, è ormai diventato una cover, e forse, se vogliamo proprio fare un raffronto sta al cinema così come il Festival di Sanremo alla programmazione spettacolare canora. Anche solo scorrendo l’album delle figurine risorgimentali sull’Impresa dei Mille, davanti all’immagine della battaglia del Ponte Ammiraglio, cui Guttuso dedicherà un quadro a testimonianza dell’epopea garibaldina, ci si trova a pensare che, tutto sommato, smessa la camicia e il chepì rossi, a chiunque spetti un titolo risarcitorio di barone, o magari direttamente di marchese, ma che dico, di principe.

10 Febbraio 2025

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