L'illusione di misurare le colpe

L’illusione arbitraria di misurare le colpe: il diritto penale non può sondare il cuore di una persona

Azione, intenzione e animo sono tre realtà ben differenti. I tribunali, dovrebbero occuparsi di accertare i fatti, le azioni. Sulle intenzioni già aleggia il rischio di un arbitrio investigativo e probatorio.

Giustizia - di Massimo Donini

6 Febbraio 2025 alle 12:50

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Photo credits: Clemente Marmorino/Imagoeconomica
Photo credits: Clemente Marmorino/Imagoeconomica

Una delle più famose esortazioni di Gesù riguarda l’ammonimento a non giudicare (Matteo, 7, 2; Luca, 6, 37). In realtà, i Vangeli ci hanno trasmesso una versione esplicativa che conserva un vago sapore retributivo: non giudicate per non essere giudicati. Perché saremo giudicati con la stessa severità con la quale abbiamo giudicato gli altri (v. anche Marco, 4, 25). Eppure, in questa problematica tradizione testuale, che mira soprattutto alla moderazione, se non al perdono, e a disvelare l’ipocrisia di chi giudica senza conoscere le persone che sta valutando e senza autocritica, sembra che il metro del giudizio lo scegliamo noi, e dunque la corrispettività (e la c.d. proporzione) del premio o del castigo sia affidata a imperscrutabili e arbitrarie opzioni soggettive della stessa persona incolpata. Non pare, allora, che la lettura tramandata sia davvero convincente, anche se una certa relatività di giudizio, in campo morale e religioso, dipende sicuramente dalla persona, dal suo cuore, e non dalle sole azioni.

Questa spiegazione ci avvicina di più al nucleo del precetto, che riguarda le intenzioni degli uomini, ma soprattutto, appunto, il loro animo, la realtà interiore della persona, il vero giudizio sull’anima. Perché azione, intenzione, e animo interno sono tre realtà ben differenti. I tribunali, di solito, dovrebbero occuparsi di accertare i fatti, le azioni, mentre sulle intenzioni già si aprono scenari di più facile arbitrio investigativo e probatorio. Quanto all’anima, poi, siamo del tutto oltre le umane competenze, anche per chi la confina nella dimensione laica della psyche. Eppure, all’interno di queste distinzioni si annidano controversie mai veramente risolte e sempre rinnovate. Non abbiamo mai attuato, né tantomeno superato, l’ammonimento di Gesù.

Raramente questo precetto è stato interpretato come delegittimazione della giustizia umana, dei tribunali. Il teologo tedesco Eugen Drewermann, famoso per i suoi commenti alle parabole evangeliche in chiave di psicologia del profondo, e il suo impegno pacifista, ha dedicato tre corposi volumi al non giudicare (Richtet nicht! Strafrecht und Christentum, Bd. 1-3, Patmos, 2021-2023), che contengono una storia millenaria del rapporto tra Cristianesimo e diritto penale. Senza entrare ora nel merito dell’afflato riconciliativo della giustizia riparativa come esito contemporaneo di quella storia (cfr. il vol. 3 dell’opera), è ben possibile ritenere che il contenuto autentico del non giudicare sia declinabile come un avviso drammatico alla giustizia punitiva, a quella penale, che si spinge ben oltre la responsabilità per i fatti commessi, e oltre la valutazione sulla pericolosità di un autore, per indagarne l’anima, gli interna, l’atteggiamento interiore, la c.d. colpevolezza. Un monito perenne e non nuovo.

Giudicare il peccato e non il peccatore è rimasto un avvertimento per la vita privata, ma non per quella sociale e tanto meno per quella giudiziaria. Nei processi penali si giudica l’imputato. È solo in quelli civili, salvo materie più contaminate da aspetti etici, o dall’ingresso di danni “punitivi”, che ci si limita al danno patrimoniale, all’inadempimento, alla condotta, senza coinvolgere la persona. Giudicare l’imputato determina un coinvolgimento morale, che non si riduce all’accertamento di un fatto illecito e del coefficiente soggettivo con il quale una condotta è stata realizzata. Si presume di potere e di dovere andare oltre, fino a sondare aspetti interni alla persona. I moventi, i motivi, la sua colpevolezza. Tutta una cultura, che è montata nella letteratura, nella ideologia e nelle aspettative sociali dai primi del Novecento, ha celebrato l’idea della colpevolezza come rimprovero personale.

Di questo rimprovero sono pieni i manuali penalistici delle culture giuridiche occidentali oggi più influenti nel mondo: quella di common law e quella di lingua tedesca, ampiamente sedimentata nelle opere di lingua spagnola, che ha diffusione ancora più estesa. Su queste opere “didattiche” si formano generazioni di professionisti del diritto e del processo che vengono solitamente influenzati dalla tendenza rimproverante. Il rimprovero è la categoria più odiosa del diritto pubblico, anche se – si noti bene – non è una categoria tecnica. Infatti, nessuno lo può accertare, perché esso costituisce in sé una valutazione, ma forse meglio sarebbe dire una reazione emotiva. Dunque, come mai i penalisti, gli “scienziati” del diritto penale, riempiono di blame, di Vorwurf, di reproche, le loro opere di ricerca, e il loro insegnamento?

È questo il segno di un singolare ingresso della sociologia criminale o della antropologia culturale dentro alla tecnica e alla scienza del diritto? Una sorta di occupazione abusiva o di inevitabile commistione dell’essere sociale con il dover essere normativo? Operari sequitur esse. Da questa premessa tomistica di metafisica sull’anima come principio di ogni operazione discende l’idea che il comportamento sveli la persona, e abbia pertanto un valore “sintomatico”. Nel corso del Novecento questa idea ha sorretto le tesi criminologiche della Scuola positiva (Lombroso, Garofalo, Ferri), che escludeva un giudizio etico-giuridico di rimprovero sulle persone, ritenute prive di vera libertà di agire diversamente e bisognose invece di controllo e neutralizzazione della pericolosità sociale. Ma le condotte restavano sintomi di pericolosità.

La maggioranza dei giuristi, invece, per responsabilizzare tutti, tranne i veri infermi, ha ritenuto che di regola la condotta criminosa esprima una colpevolezza interiore e non una pericolosità soggettiva. E la colpevolezza dipende dal libero arbitrio, dalla possibilità di agire diversamente. Eppure, attraverso questa idea responsabilizzante, si è diffusa una ideologia del rimprovero retributivo, che alimenta prassi e culture che coesistono con l’idea che il diritto penale sia laico e separato dalla morale. Non è vero. Esso vive di contraddizioni. Il giudizio giuridico-penale non è etico, ma il rimprovero di colpevolezza diventa socialmente un rimprovero alla persona, e non al solo fatto commesso. Sono realtà che riesce difficile distinguere. L’unico modo per liberarsi di ingerenze indebite nell’interiorità è di chiarire che la colpevolezza non è oggetto di prova, nel processo, e dunque è fuori della tecnica del diritto. Noi non conosciamo il cuore della persona. E neppure siamo autorizzati a sondarlo.

Infatti, i moventi, le cause psichiche dell’agire entrano solo in modo eventuale nelle carte processuali. Provare il fatto e provare la volizione o la colpa, non richiede la conoscenza della motivazione, che può restare sconosciuta. È utile, ma non è essenziale, non è nel capo di imputazione. Ciò significa che il giudizio non attinge la colpevolezza interna, ma una valutazione di tipo sociale su azione ed elemento soggettivo della condotta. È questo un grande insegnamento di civiltà del diritto. Anche se esistono persone pericolose, o che hanno commesso malvagità, e saranno neutralizzate ed escluse a lungo dalla vita sociale, noi non le disprezziamo moralmente, ma continuiamo a trattarle come persone e come valori. Anche un delitto orrendo non esaurisce in quel fatto il valore della persona fino a renderla una non persona. Mai. E il giudice non rimprovera nessuno in sentenza, anche se valuta e gradua le responsabilità.

Il fatto non esaurisce il valore del soggetto in un disvalore perenne fotografato o scolpito nel suo male. La colpevolezza rimane dunque laica perché riguarda il fatto e non la persona staccata da quel fatto: se era, rispetto al fatto commesso, motivabile normalmente o condizionata da scusanti, da malattie psichiche o da costrizioni esterne, per es. Oppure se non poteva essere motivata dalla legge perché la legge stessa era troppo oscura e inconoscibile. Questi deficit di motivazione e di esigibilità possono anche solo diminuire la colpevolezza, ma pure in tal caso il giudizio penale non attinge la vita interiore, che è aspetto sacro della persona. Non c’è accountability perché la stessa persona, troppo spesso, anche se libera e capace di intendere e volere, non comprende le ragioni che spiegano perché ha agito o ha omesso di agire, e vorrebbe magari non averlo mai fatto. E un’altra persona, al suo posto, è solo stata fortunata per non essersi trovata in quella situazione o per non aver avuto gli stessi condizionamenti.

Se poi dovesse mancare la prova dell’elemento soggettivo del fatto, neppure si porrebbe il problema della colpevolezza come sfera motivazionale anomala, oppure pienamente responsabile. Non si è colpevoli a prescindere, per una sorta di responsabilità di posizione, per essere coinvolti in una vicenda, per tutta una condotta di vita o un modo di pensare che sembra riflettersi nello stile e nelle forme di quanto si è oggettivamente realizzato. Perché si può essere colpevoli per la realizzazione di un fatto proprio, commesso, che sia sorretta da un elemento soggettivo tipico, e non sia legittimata da una causa di giustificazione (adempimento di un dovere, esercizio di un diritto, stato di necessità etc.).

Torniamo così al dato di partenza. Noi possiamo giudicare politicamente, moralmente, e anche giuridicamente tutti i fatti. Quando invece si tratta delle persone noi non le stiamo disprezzando o biasimando se accertiamo che un determinato illecito lo hanno commesso “apposta” (dolo) o per errore, negligenza o imprudenza (colpa). Questi atteggiamenti soggettivi di distinta gravità ancora non esprimono un giudizio sulla persona, ma sul fatto. E se dopo il fatto si passa a pensare di “misurare la colpevolezza”, come dicono di poter fare i penalisti, ci si accorge che questa operazione è la meno scientifica di tutto il diritto penale: c’è una arbitrarietà estrema nel pensare di avere una qualche unità di misura non del “danno”, ma della colpa.

Nessuno ne conosce veramente l’entità, e la stessa cornice astratta della pena, da un minimo a un massimo, è riempita di così tante valutazioni politiche approssimative, da esigenze preventive non verificabili, da paure sociali strumentalizzate, da raffronti del tutto empirici e occasionali con altre incriminazioni simili, da scoraggiare ogni tentativo di costruire un edificio normativo basato su una tavola di valori misurabili in ragione soprattutto di parametri personologici. La libertà e la vita delle persone sono sacrificate ad esigenze generali contingenti e variabili. E come il rimprovero non si può misurare né accertare, e dunque non esiste come categoria tecnica, così la colpevolezza che si accerta non è il rimprovero, ma solo un qualche grado di maggiore o minore esigibilità di un comportamento lecito, e la sussistenza (se verificabile) dei motivi che hanno condizionato o limitato la persona nella realizzazione del fatto. Ma quanto tali motivi siano abietti o futili, quanto di valore morale o sociale, e quanto, invece, costituiscano le normali passioni o i bisogni, o le illusioni, che determinano al delitto, è un universo del quale il giudice non può ergersi a specialista. L’abbiamo messo lì a inventarsi misure che non hanno un metro, né una vera episteme.

L’idea di incentrare il nucleo della commisurazione della pena su questa colpevolezza non verificabile è una delle più grandi illusioni dei penalisti. Per questo occorre che si sappia, fin dall’educazione primaria, oltre che nei corsi di formazione dei giuristi, che il giudizio dovrà riguardare soprattutto i fatti, oggettivi e soggettivi, il danno, l’offesa, la sua riparazione, mentre la individualizzazione e personalizzazione della pena, indispensabile per i giudizi e i provvedimenti di prognosi e di risocializzazione o rieducazione, non potrà consegnare ai magistrati come all’opinione pubblica nessuna autorizzazione a violare il sacro limite dell’intangibilità delle persone come valori morali e metafisici: al di là di ciò che si vede.

6 Febbraio 2025

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