Si spengono le due luci del '68

Furio Colombo e Franco Piperno: si spengono le ultime luci del ’68

Furio Colombo era amico di Gianni Agnelli, ma poi, al fianco di Bob Kennedy corse a sinistra. Piperno uscì dal Pci per guidare un movimento di ribelli marxisti e libertari

Editoriali - di Piero Sansonetti

15 Gennaio 2025 alle 13:30

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Foto collage Imagoeconomica
Foto collage Imagoeconomica

Ieri sono morti Furio Colombo (94 anni) e Franco Piperno (82). Non avevano molto in comune. Solo una cifra: 68. Cioè l’anno nel quale grandi movimenti di giovani scossero il potere, in tutto l’Occidente e anche all’Est, e qui da noi travolsero il senso comune e le istituzioni politiche ma non solo politiche: i giornali, la Tv, la letteratura, la filosofia, le famiglie, la chiesa i rapporti tra i sessi, i rapporti tra genitori e figli, il senso dello Stato, della legge, dell’obbedienza, della gerarchia.

Furio Colombo può essere considerato l’esponente più brillante del ‘68 liberale. Franco Piperno ha avuto una parte enorme nella costruzione del sessantotto studentesco e operaio. Quello che incendiò le piazze. Colombo era una cerniera fondamentale tra le spinte rivoluzionarie del movimento e l’establishment. Più di tutti gli altri, insieme forse a Umberto Eco (che però era molto meno politico di lui e meno vicino al potere) fu decisivo nello sforzo per evitare che la borghesia restasse tagliata fuori dalle nuove ideologie e riuscisse a sistemarsi, con la sua lungimiranza e la sua volontà di quiete, in una posizione mediana tra le spinte ribelli e la pancia reazionaria. Quando scrivo sessantotto intendo paradossalmente un biennio. Il sessantotto studentesco non può essere capito e interpretato se non si tiene conto della sua prosecuzione nel ‘69 operaio. Franco Piperno visse quegli anni da leader assoluto del movimento studentesco, che spostò, guidandolo dalle prime proteste, generiche e un po’ corporative, fin dentro il mondo dell’operaismo – del quale è stato uno dei massimi interpreti – e della lotta di classe.

Il ’68 di Franco Piperno

Il Sessantotto ebbe un certo numero di leader. Nel campo giovanile, che era la grande novità, i leader più forti erano cinque: Mario Capanna a Milano, Adriano Sofri che fondò Lotta Continua, e a Roma Piperno soprattutto, e poi Scalzone e Franco Russo. Tutti ragazzi tra i 20 e i 25 anni. In campo operaio due figure, gigantesche, si stagliavano nel fuoco di quelle battaglie: Bruno Trentin e Pierre Carniti. Piperno era un personaggio speciale. È stato un leader di piazza e di università ma era anche un intellettuale che elaborava teoria politica. Oggi è un po’ difficile immaginare quella generazione di leader studenteschi. Erano ragazzini, ma erano persone coltissime, che avevano studiato, discusso, confrontato, che conoscevano molto bene la storia, la politica, e la filosofia. Lui non era un letterato, era un fisico. A Roma la facoltà di Fisica, dopo quella di Lettere e quella di Architettura, era la più politicizzata.

Nella politica di Piperno, e quindi poi in quella di Potere Operaio, c’erano dentro moltissime cose. C’era naturalmente l’idea di centralità operaia, l’“operaismo” (cioè il pensiero politico parallelo a quello del Pci e in dissenso), che poneva la classe operaia come nucleo centrale della storia e della lotta politica, come motore unico dello sviluppo e della liberazione, ma lo faceva spogliando la politica dalla burocrazia, dall’apparatchik, e rompendo l’idea della lotta per l’uguaglianza come alternativa alla lotta per la libertà. Potere Operaio sicuramente era un movimento non ostile alla violenza come arma politica, ma aveva un’idea della violenza lontanissima da quella che poi animò il terrorismo. C’era persino goliardia e “futurismo” nella violenza di Pot Op. Ricordo, all’inizio degli anni Settanta, uno slogan tra i più assurdi e innovativi che abbia mai ascoltato: “Champagne Molotov”. E poi ricordo quella folle definizione di Piperno sulla “geometrica potenza delle Brigate rosse” (che ricordava parecchio Marinetti).

Il Sessantotto sicuramente fu un movimento e fu una rivoluzione assai più ampia delle idee di Franco Piperno. Però non saprei immaginare un Sessantotto italiano senza Piperno, come non potrei pensare a un Sessantotto francese senza Daniel Cohn Bendit, o a un Sessantotto tedesco senza Rudi Dutschke. E resto convinto che l’eredità del Sessantotto è durata negli anni degli anni. E in parte dura ancora. Il Sessantotto spezzò la biografia di questo paese. Spazzò via conservatorismo, bigottismo, maschismo, sessismo, sotterrò l’idea della superiorità dei ricchi. Nacque da piccoli gruppi di ragazzi intellettuali figli della borghesia quasi tutti. Però dilagò. E riuscì nella titanica impresa non solo di spostare più a sinistra l’asse della cultura di sinistra, ma anche di spostare a sinistra l’asse delle idelità di destra. Fu questa la vittoria del Sessantotto, sconfitto in modo clamoroso sul piano del potere e sul piano militare, ma vincitore sul piano dell’egemonia culturale e capace di dominare per più di mezzo secolo l’opinione pubblica, la politica, la religione, il pensiero di massa. E in questa battaglia uno come Franco Piperno ebbe un grande peso.

Fu perseguitato. Coinvolto nel processo cosiddetto del 7 aprile, perché in quel giorno del 1979 la polizia, guidata dal magistrato Pietro Calogero, compì una retata tra i dirigenti di Potere Operaio. Piperno quella mattina stava andando nella sede della rivista che dirigeva, Metropolis, ma prima di uscire telefonò in redazione per sapere se era arrivato Scalzone. Rispose proprio Scalzone al telefono, e a Piperno che gli diceva “sto arrivando”, replicò seccamente: “Meglio di no”. Piperno intuì che la sede era invasa dalla polizia e fuggì. Francia, Canada. Poi clandestinamente rientrò in Italia e fu beccato e messo in prigione. Calogero sosteneva che gli ex di Potere Operaio fossero la mente e forse anche il braccio delle Br. Però non era vero.

Il ’68 di Furio Colombo

Naturalmente Furio Colombo era un personaggio completamente diverso. A differenza di Piperno che era di formazione marxista (militò nel Pci fino all’età di 24 anni, fino al 1967, quando fu espulso per “deviazionismo” come si diceva allora, cioè mancanza di disciplina verso la linea del partito), Furio era un liberale. Si era formato alla scuola di Adriano Olivetti, era stato una delle anime del movimento letterario Gruppo ‘63 con Umberto Eco, Guglielmi, Balestrini, Sanguineti, poi aveva lavorato per la Rai e anche per la Fiat. Era un classico intellettuale liberale, punto di forza della “borghesia illuminata”. Poi andò in America, e conobbe sia la giovane generazione ribelle, Joan Baez, Bob Dylan, Pete Seeger, il più anziano Lawrence Ferlinghetti, sia l’establishment, e in particolare la famiglia Kennedy. Fu proprio la svolta pacifista e a sinistra di Bob, dopo la morte del fratello John a Dallas, che trascinò Furio su posizioni sempre più di sinistra. Fino a diventare direttore dell’Unità.

Mi ricordo che quando era direttore una volta mi mandò a intervistare il famoso scrittore americano Gore Vidal. Il quale mi accolse ridendo, rideva perché per lui Furio era un uomo dell’establishment, non della classe operaia, e rideva, rideva perché proprio non ce lo vedeva a guidare l’Unità. Invece Furio guidò molto bene l’Unità. La salvò da una crisi che era sembrata irreversibile. E la salvò spostandola a sinistra. L’Unità era andata a sbattere sulla scogliera negli anni del Pds (si chiamava così) governativo. Aveva perso identità. Addirittura aveva fatto sparire il rosso dalla sua testata. Colombo la prese per mano e la guidò in un territorio per lui fino a quel momento inesplorato.

Insomma, sono morti. Il caso ha voluto che morissero lo stesso giorno. Il rivoluzionario e il liberale. L’operaista e il borghese. Le ultime voci, gli ultimi cervelli del Sessantotto. Game Over. Temo che il Sessantotto ora sia proprio finito.

15 Gennaio 2025

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