Le motivazioni della Consulta
No all’autonomia, la Consulta dà una lezione di diritto alla Lega
In 109 pagine, i giudici della Corte rispiegano a Salvini e soci che in Italia vige la solidarietà tra le Regioni, e non la conflittualità: la secessione dei ricchi, spiegano, è un atto di sabotaggio ai danni della democrazia
Politica - di Salvatore Curreri
Le aspettative non sono andate deluse: quella depositata l’altro ieri sull’autonomia differenziata non è una semplice sentenza (192/2024) ma un vero e proprio trattato di diritto regionale. Non solo e non tanto per la sua lunghezza (109 pagine con un dispositivo articolato in ben 52 punti!) piuttosto per la prospettiva di sistema entro cui le argomentazioni della Corte costituzionale sono coerentemente e conseguenzialmente svolte.
Un leading case, dunque, per chi in futuro vorrà o dovrà occuparsi della materia: non solo specificamente dell’autonomia differenziata ma, più in generale, del nostro regionalismo in cui – afferma in premessa la Corte – i rapporti tra le Regioni devono essere improntati a spirito di solidarietà anziché di conflittualità. Di tale prospettiva dovranno farsene una ragione gli esponenti della maggioranza di centro-destra (ovviamente Calderoli in testa) che, a dispetto delle rassicuranti dichiarazioni rilasciate dopo il comunicato stampa, dopo aver letto, riletto e ben compreso le motivazioni addotte dalla Corte, dovranno alla loro luce riscrivere daccapo la legge n. 86/2024.
Impossibile – e certo inopportuno – in questa sede analizzare i singoli punti in cui si articola la sentenza, peraltro ben sintetizzati nel comunicato stampa già da me commentato su queste colonne lo scorso 16 novembre. Piuttosto, è preferibile soffermarsi sui principi ispiratori in forza dei quali la Corte costituzionale ha dato una interpretazione costituzionalmente conforme dell’autonomia differenziata. Vi è, infatti, un radicale contrasto tra la versione calderoliana di tale autonomia e la nostra forma di Stato regionale, in cui le diverse forme di autonomia riconosciute alle Regioni, ampliate con la riforma del Titolo V approvata nel 2001, devono esercitarsi nel quadro dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.). “La nostra democrazia costituzionale – scrive la Corte – si basa sulla compresenza e sulla dialettica di pluralismo e unità (…) senza che siano in alcun modo configurabili dei «popoli regionali»”.
Incostituzionale, dunque, non è l’autonomia differenziata in sé e per sé (come pur sostenuto da chi la ritiene una legge costituzionale incostituzionale…) ma il modo in cui la legge Calderoli l’ha attuata. Essa, infatti, non deve essere “un fattore di disgregazione dell’unità nazionale e della coesione sociale, ma uno strumento al servizio del bene comune della società e della tutela dei diritti degli individui e delle formazioni sociali”. A tal fine, è un bene che le regioni seguano politiche differenti tra loro per innalzare la qualità delle prestazioni pubbliche. Ma questa competizione virtuosa da un lato presuppone che tutte le regioni partano dalla stessa linea: gli ormai famosi LEP, cioè i livelli essenziali (e non minimi) delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che lo Stato deve garantire su tutto il territorio nazionale; dall’altro, essa non può “spingersi fino a minare la solidarietà tra lo Stato e le regioni e tra regioni, l’unità giuridica ed economica della Repubblica, l’eguaglianza dei cittadini nel godimento dei diritti, l’effettiva garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e quindi la coesione sociale e l’unità nazionale – che sono tratti caratterizzanti la forma di Stato –, il cui indebolimento – avverte con preoccupazione la Corte – può sfociare nella stessa crisi della democrazia”.
Da qui tutta una serie di conseguenze. Innanzi tutto, non si possono trasferire materie in blocco ma singole funzioni legislative e/o amministrative che la Regione deve dimostrare, dati alla mano e alla luce di un’idonea istruttoria, di poter esercitare in modo più efficace e più efficiente, e dunque meglio e con minori risorse, rispetto allo Stato. È il (flessibile) principio di sussidiarietà che vuole che le funzioni siano attribuite al livello di governo territoriale più adeguato, che non s’identifica di per sé con quello comunale o regionale ma può oscillare verso l’alto o verso il basso (l’ascensore ben noto a chi ha studiato dal manuale di cui il giudice relatore e redattore Pitruzzella è coautore con il prof. Bin).
In secondo luogo, alla luce di tali considerazioni ci sono materie che costituiscono, per così dire, la colonna vertebrale del nostro Stato, il cui trasferimento alle Regioni è dunque, se non impossibile, difficilmente giustificabile per ragioni di ordine giuridico, tecnico o economico. Stiamo parlando di commercio con l’estero e con gli altri Stati membri dell’Unione europea, tutela dell’ambiente, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, porti e aeroporti civili e grandi reti di trasporto e di navigazione, le professioni (specie quelle organizzate in Ordini), l’ordinamento della comunicazione, le norme generali sull’istruzione. Le Regioni che vorranno trasferite tali funzioni dovranno giustificarlo, e sarà un onore – scrive la Corte – “particolarmente gravoso e complesso” comunque sottoposto al proprio “scrutinio stretto di legittimità costituzionale”. A buon intenditor…
Per evitare, infine, le derive verso l’autonomia differenziata potrebbe scivolare e ricondurre ad unità la complessità del pluralismo istituzionale fondamentale è il ruolo del Parlamento che la legge Calderoli bellamente bypassava e poneva ai margini della trattativa Stato – Regioni. È vero, afferma la Corte, che il Parlamento è espressione dell’indirizzo politica della maggioranza di governo ma, al contempo, per sua peculiare natura “consente un confronto trasparente con le forze di opposizione e permette di alimentare il dibattito nella sfera pubblica, soprattutto quando si discutono questioni che riguardano la vita di tutti i cittadini”. Sotto questo profilo, dunque, è compito del Parlamento andare oltre la dialettica (contrapposizione?) tra maggioranza e opposizione per “tutelare le esigenze unitarie tendenzialmente stabili”. La Corte non lo dice – né avrebbe potuto dirlo – ma certamente il Parlamento svolgerebbe meglio tale ruolo fondamentale se il nostro bicameralismo – anziché paritario – fosse differenziato, come avviene in tutti gli Stati federali e autonomici – con un Senato “camera delle regioni” quale sede politico-istituzionale in cui Stato e Regioni possono confrontarsi e trovare soluzioni di sintesi meglio di quanto oggi avviene nella omonima Conferenza tra Governo e esecutivi regionali.
E ora? Il primo effetto della sentenza si avrà sul giudizio di legittimità dell’Ufficio centrale della Cassazione sui due referendum (l’uno parziale, l’altro totale) richiesti dalle Regioni di centro-sinistra. Considerato che la Corte ha profondamente cambiato «i principi informatori» e i «contenuti normativi essenziali» degli articoli della legge Calderoli oggetto del quesito parziale, a me pare probabile che esso non superi tale primo controllo. Di contro, non è da escludersi che il quesito referendario totalmente abrogativo – superato il secondo scoglio del giudizio di ammissibilità della Corte costituzionale – possa comunque svolgersi, seppur sui brandelli rimasti della legge Calderoli. In ogni caso la Cassazione deciderà indipendentemente dai desiderata dei proponenti.
In conclusione, come la sentenza 303/2003 corresse gli eccessi della riforma del Titolo V del 2001 sull’autonomia legislativa regionale, la sentenza qui commentata pone i limiti entro cui le Regioni possono rivendicare l’autonomia differenziata. Due sentenze, dunque, “ortopediche”, nel senso che raddrizzano e mettono in linea disposizioni la cui interpretazione potrebbe altrimenti non saldarsi con l’intero corpo costituzionale. Certo si è che, al di là delle contingenti convenienze di parte, la sentenza della Corte costituzionale è una boccata di aria fresca in un dibattito politico sul tema spesso asfittico e mefitico. Se la classe politica fosse illuminata da tale faro, ciò costituirebbe il migliore viatico per affrontare le sensibili differenze che – inutile nasconderlo –oggi ci sono tra le Regioni specie sui diritti sociali, come da ultimo inequivocabilmente dimostrano il numero dei pazienti che per curarsi preferiscono trasferirsi al centro-nord.