Il ricordo del sociologo
Chi era Franco Ferrarotti: padre della sociologia italiana, il Maometto della Olivetti
Fondatore, a soli 25 anni, della rivista “Quaderni di sociologia”, traduttore de “La teoria della classe agiata”, prima operaio, poi accademico e sociologo. Un intellettuale che non ha mai smesso di criticare il “sapere mercificato”
Editoriali - di Michele Prospero
Nel secondo dopoguerra Franco Ferrarotti è stato quello che si può definire un pioniere degli studi di scienze sociali. Nel 1951, a soli 25 anni, insieme a Nicola Abbagnano, che era un già affermato filosofo dell’esistenzialismo positivo cresciuto non a caso fuori dall’influenza crociana e gentiliana, fondò la rivista Quaderni di sociologia.
L’iniziativa era di per sé una esplicita sfida rivolta conto l’accademia, allora saldamente dominata dal neoidealismo. Non per niente, ha rievocato Ferrarotti, Carlo Antoni sul Mondo se la prese, proprio come aveva fatto Croce nei confronti di Pareto ad inizio secolo, con “la scienza dei manichini”, che osa fare una ricerca oggettiva sul comportamento umano negando così in radice la imprevedibile “spiritualità” del soggetto. A spingere il giovane della provincia vercellese verso la “sbornia sociologica” fu l’amico Cesare Pavese che, per l’Einaudi, lo incaricò della traduzione di alcuni libri americani. Venne così alla luce, tra gli altri, il celebre lavoro di Thorstein Veblen (The Theory of the Leisure Class). Discutendo con David Riesman a proposito della ricezione in Italia della Teoria della classe agiata, Ferrarotti rammentava che “a pochi giorni dalla comparsa della mia traduzione, in un articolo sul Corriere della Sera del 15 gennaio 1949, Croce non esitava a tacciare Veblen della ‘più completa ottusità nel cogliere il carattere storico dei fatti’ ” (Schegge di vita, Roma, 2020).
L’ostilità di Ferrarotti, a dire il vero, non si limitava al solo fronte dello storicismo tradizionale: “Riesman mi sembrava divertito dalla reazione crociana, con quella sua caratteristica smorfia del labbro inferiore fra il meravigliato e lo scettico, mentre non riusciva assolutamente a comprendere come mai la sinistra marxistica, soprattutto la rivista Critica economica, diretta da un marxista ortodosso come Antonio Pesenti, se la prendesse in maniera così drastica con un sociologo che non era mai stato tenero con gli “interessi consolidati”, con il capitale finanziario e in generale con le banche. Era difficile per me far comprendere che il marxismo italiano era stato ed era ancora “imbevuto di idealismo”, “un marxismo che invece di fare ricerche faceva del moralismo” (op. cit.).
Negli anni successivi, lo stesso Ferrarotti contribuirà a integrare i tipi ideali, messi a punto da Weber, con le astrazioni determinate affinate da Marx. Solo attraverso un tale incrocio sarebbe stato per lui possibile mediare teoria ed empiria, senza scambiare il concetto per la realtà e la realtà per il concetto (come si esprime in Max Weber e il destino della ragione, Laterza, 1965). Questo percorso analitico continuava a rimanere ostico per taluni filosofi marxisti che, in polemica verso “la sociologia noiosa”, con Lukács rivendicavano una qualche scienza superiore “fondata sulla totalità” (F. Ferrarotti, Colloquio con Lukács. La ricerca sociologica e il marxismo, Franco Angeli, 1975, p. 22). Prima dei grandi movimenti degli anni ’60, che lo avrebbero indotto a prospettare una Sociologia alternativa (De Donato, 1972), anche in qualità di apprendista metalmeccanico, aveva scoperto la condizione operaia. Questo studioso sempre nomade, che per la frequentazione degli stabilimenti di Ivrea venne definito da Fabrizio Onofri sul Contemporaneo come “il Maometto di Olivetti”, aveva percepito la dura situazione dei lavoratori, negli anni del tutto occultata dalla sociologia ufficiale.
Con un notevole piglio polemico, Ferrarotti (Pane e lavoro! Memorie dell’outsider, Guerini e Associati, 2004, p. 48) scriveva: “La vita di fabbrica è certamente piena di umiliazioni, da caserma di terz’ordine, di noia e di offese, in certe situazioni, quotidiane alla dignità personale. Ma è anche una trafila di pericoli per l’incolumità fisica, di cui non tengono sufficiente conto, forse solo per ignoranza, i testi di sociologia industriale. Viene da pensare che i professori di sociologia del lavoro siano vittime di un lamentevole equivoco quando organizzano con rara perizia seminari e convegni per managers ad alto livello, per lo più in luoghi incantevoli cui evidentemente, a titolo esornativo, se non sempre estetico, sono invitate le consorti e le conviventi, tanto da coniugare felicemente discussioni e libagioni”.
Oltre alle reali dinamiche di fabbrica, e alla quotidiana vulnerabilità operaia, con gli omicidi bianchi sempre a portata di mano, l’indagine di Ferrarotti scopriva che il selvaggio e il primitivo, dimensioni così care agli antropologi strutturali d’oltralpe, si rintracciavano alle porte di Roma, cioè nella borgata, un aspro luogo di violenza, marginalità, esclusione. Prima di diventare “la capitale del capitale”, Roma era un territorio denso di sacche di arretratezza, con l’assenza di rete fognaria, di piani urbanistici, di servizi vitali. Proprio per l’eco del suo saggio (Roma da capitale a periferia, Laterza, 1970), nel 1976 il professore piemontese venne individuato come il possibile primo sindaco rosso della città eterna. Con la mediazione di Maria Michetti, apprezzata da Ferrarotti anche quale “indomita ‘eretica’ minoritaria nel seno del Pci romano, vicina a Pietro Ingrao, consigliere comunale da sempre”, e divenuta sua assistente all’università, era entrato in un rapporto molto confidenziale con Luigi Petroselli. Il sociologo lo ricordava con “gli occhi quasi infantilmente interroganti, l’eterna sigaretta pendula al lato della bocca, l’andatura randagia e il vestire piuttosto trasandato”.
A piazza Esedra, il funzionario di via dei Frentani gli lanciò una classica proposta indecente. Così Ferrarotti ricostruiva l’accaduto nel suo Schegge di vita: “L’uomo sapeva come adoperare bene il bisturi psicologico. Ma le vacanze di Pasqua stavano arrivando. Avrei accompagnato la famiglia a Urbino a visitare il Palazzo ducale. Chiedevo una pausa di riflessione. Ma Petroselli era tenace come un montanaro, furbo come un vero contadino, più rapido di un intellettuale. «Ti farò dare 45mila voti di preferenza. Se, come dici, vuoi aver tempo per studiare e scrivere, bene, mi dai tre anni. Dopo subentro io. Stai tranquillo. Se mi dici di no, dovrò imbarcare il “vecchio”». Alludeva probabilmente al noto storico dell’arte Giulio Carlo Argan. Nulla di irrispettoso, solo la rude franchezza dell’organizzatore politico di base, dell’uomo d’azione che ha il senso della scadenza e che non può permettersi alcun amletismo fra pensiero e decisione”.
L’appuntamento mancato con il Campidoglio ha “costretto” Ferrarotti ad un altro mezzo secolo di studi e viaggi, per dare sfogo ad una curiosità che lo trascinava dalla musica alla politica, dalla teoria sociale alla comunicazione. Il mondo della fabbrica e della borgata è stato ai suoi occhi progressivamente trasfigurato dalla new economy, con le tecnologie, le mentalità curvate dai nuovi media che non consentono “una partecipazione trasformante, ossia significativa”, anche perché con le opinioni manipolate non c’è più nulla da comunicare (L’identità dialogica, Pisa, 2007).
L’orizzonte pubblico mostrava l’ascesa del potere del capo che si consolidava “annullando le opposizioni, le minoranze morali, il dissenso non declinabile in rappresentazione scenografica”. La personalizzazione del potere, e l’eclissi della rappresentanza che accompagnava – complice la rete – fasulli miti di trasparenza, lo indussero a ripensare alle aporie del “suo” Weber, definito da Ferrarotti “l’orfano di Bismark”: pur dotato di una profonda sensibilità storica, di una conoscenza sofisticata dei riti delle religioni orientali, il teorico del “principio del piccolo numero” contribuì al deperimento dell’idea democratica poiché non comprese l’insidia racchiusa nell’articolo 48 della Costituzione di Weimar (il “Diktatur Paragraph”).
Servendosi di figure equivoche (“il grande individuo” mosso da pure intuizioni), con scorciatoie analitiche insidiose, Weber imboccava “la strada dell’irrazionalismo” nell’attesa di un leader in possesso di tecniche magiche di decisione e incantamento. Fuorviato da “una colossale cecità”, dinanzi agli eventi traumatici del primo dopoguerra, il sociologo tedesco “arrivava a una sorta di vago populismo, con la teorizzazione del capo plebiscitario, insieme con il capo cesaristico un sotto-tipo, o più precisamente una stepping stone, un gradino, verso il capo carismatico, che tutti li sovrasta” (Ferrarotti, Max Weber. Il problema del potere, Armando Editore, 2020, p. 111). Al cospetto degli sviluppi epocali di crisi della tarda modernità, la sociologia mostra gli stessi limiti esplicativi dell’ultimo dei classici. Appesantita dai segni dell’usura, la scienza sociale si rivela nient’altro che “sociografia”, nei casi migliori spaccia poco più che “giornalismo impressionistico”.
La denuncia della sociologia quale “sapere mercificato” spingeva Ferrarotti (L’identità dialogica, cit.) all’aperta nostalgia “della sociologia che non è quella che si pratica oggi”. Come “scienza ibrida” essa ha sempre bisogno di problemi teorici, altrimenti smarrisce qualsiasi orizzonte di critica dell’esistente per tramutarsi in un “mero accertamento di fatti slegati e più o meno frammentari”. Una simile rinuncia generale ad esercitare il pensiero critico colloca sempre più la sociologia in “una funzione ancillare rispetto alle forze che su scala planetaria guidano oggi il processo di mercificazione”.
Per Ferrarotti, oltre che ricerca empirica indirizzata da una teoria, la sociologia era anche un’appassionata lezione pronunciata in un’aula che stuzzicava la sua vocazione al mestiere della parola. Giunto quasi alla soglia del secolo di vita, così ripercorreva la propria esperienza di docenza, accarezzata come una bella ossessione: “Da qualche tempo, specialmente da quando sono a riposo, non passa notte che non sogni di far lezione. Tengo seminari, polemizzo con Karl Popper, David Easton, Leo Strauss, August Friedrich von Hayek, Norberto Bobbio. Spesso evoco colleghi, italiani e stranieri, morti da un pezzo. Mi sento come quel cavallo di cui scriveva Charles Dickens, un vecchio ronzino di quarantadue anni, che era sempre attaccato alle stanghe come se stesse per partire, perché, se lo avessero staccato, sarebbe piombato a terra e non sarebbe più stato in grado di rialzarsi” (Ferrarotti, Schegge di vita, cit.).