Esteso l'accesso
Suicidio assistito, cosa prevede la legge dopo la sentenza della Consulta
Ampliato il concetto di “trattamento di sostegno vitale” nato dalla sentenza del 2019 sul caso di dj Fabo. Il vuoto normativo rimane: la decisione spetterà non al giudice ma alla politica
Giustizia - di Salvatore Curreri
Cosa deve intendersi per trattamenti sanitari di sostegno vitale (Tsv)? Solo quelli – estremi – elettromeccanici, invasivi e sostitutivi delle funzioni vitali, come l’idratazione e l’alimentazione artificiali e la ventilazione assistita tramite respiratore? Oppure – in senso più esteso – ogni cura cui è sottoposto chi, pur non avendo la malattia raggiunto uno stato terminale, è affetto da una patologia irreversibile (ad esempio la sclerosi multipla) causa d’insopportabili sofferenze fisiche o psicologiche? Era questa la drammatica questione di costituzionalità, sollevata dal gip di Firenze, su cui la Corte costituzionale si è pronunciata giovedì (sentenza n. 135/2024), chiarendo così la ratio di una delle quattro condizioni poste nella famosa sentenza n. 242/2019 sul c.d. caso dj Fabo-Cappato. In quell’occasione, infatti, i giudici di palazzo della Consulta stabilirono la non punibilità (e non, si badi, il diritto) del suicidio assistito se si tratta di un paziente: 1) capace di prendere decisioni libere e consapevoli; 2) affetto da patologia irreversibile; 3) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili e – giustappunto -; 4) dipendente da trattamenti di sostegno vitale.
La Corte ha respinto tutte le eccezioni d’incostituzionalità sollevate in riferimento a quest’ultimo requisito. Innanzi tutto non vi è alcuna disparità di trattamento nell’accesso al suicidio assistito tra pazienti sottoposti o meno a Tsv perché solo i primi, rifiutando le cure, possono provocare in tempi brevi la propria morte: si tratta, dunque, di situazioni diverse. Inoltre, il paziente ha certamente il diritto costituzionale di rifiutare qualunque cura non imposta per legge, anche quando salva-vita, ma – contrariamente alle conclusioni di altri giudici costituzionali (in Germania, Austria, Spagna, Canada, Colombia e Ecuador) – ciò non può tradursi in una assoluta e discrezionale libertà di accesso al suicidio assistito. Un simile “salto di livello”, infatti, esporrebbe al rischio di possibili abusi o indebite pressioni sociali, magari indirette, in danno delle persone più deboli e vulnerabili, la cui vita umana è dovere della Repubblica tutelare. Il suicidio assistito e l’omicidio del consenziente restano reati non perché la vita sia un bene indisponibile in nome di una sua concezione sacrale o funzionale al supremo interesse della collettività alla conservazione della vita dei suoi concittadini. La nostra Costituzione, infatti, considera la persona un valore in sé e non un mezzo per soddisfare interessi altrui. Piuttosto tali reati trovano giustificazione costituzionale perché funzionali allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare la vita delle persone che a causa di interferenze di ogni genere potrebbero essere indotte a scelte estreme e irreparabili. È allora compito del legislatore bilanciare il dovere di tutelare la vita umana con il diritto all’autodeterminazione terapeutica di chi vuole scegliere su come porre fine alla propria vita quando la ritiene non degna di essere vissuta sulla base di una nozione soggettiva – anziché oggettiva – della sua dignità alla quale la Corte significativamente si dice “non affatto insensibile”. In tale bilanciamento il legislatore, seguendo la strada indicata dalla Corte, deve rifiutare le tesi opposte di chi vuole il suicidio assistito: sempre e comunque vietato, perché contrario alla vita come dono di Dio o funzionale ad interessi collettivi; oppure sempre e comunque ammesso, in nome del diritto di ognuno di autodeterminarsi nella propria vita privata. Piuttosto il legislatore statale, in forza del “considerevole” margine di apprezzamento che ha in materia (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 13.6.2024 Karsai c. Ungheria), se da un lato non può certamente costringere nessuno a vivere contro la propria volontà, di contro deve evitare che questa libertà possa prestarsi ad abusi in danno di persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e sole, le quali potrebbero essere facilmente indotte da altri o dalla propria stessa disperazione a scelte autodistruttive.
- Suicidio assistito, passettino avanti della Consulta
- Suicidio assistito legale, i requisiti irragionevoli: non puoi morire perché (forse) non hai sofferto abbastanza
- Suicidio assistito, dalla Consulta un passetto in avanti ma la libertà è un’altra cosa
- Suicidio assistito: le false ragioni di chi si oppone alla libertà di scelta
Sbaglierebbe però chi da queste premesse concludesse per una Corte insensibile alla questione sottoposta. Pur respingendo tutte le eccezioni d’incostituzionalità sollevate, la Corte si dà carico di dare una sorta di interpretazione autentica della ratio della nozione di Tsv indicata nella sua sentenza del 2019, includendovi quei trattamenti sanitari anche non complessi o invasivi come – e qui l’esemplificazione non è né casuale né inopportuna – l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali, la cui “omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”. Tutti trattamenti che possono essere compiuti anche da personale non sanitario, come i familiari o i caregivers, e che vanno ugualmente considerati di sostegno vitale purché ovviamente determinino in tempi brevi e prevedibili la morte del paziente. Inoltre, puntualizza la Corte, al suicidio assistito possono accedere non solo quanti sono già sottoposti a tali Tsv ma anche coloro che sono in procinto di esserlo e che possono già sin dall’inizio rifiutarli in quanto non imposti per legge. Ciò per evitare il drammatico paradosso, purtroppo già verificatosi, che per poter accedere al suicidio assistito si sia di fatto costretti a sottoporsi ad un trattamento di sostegno vitale (nel caso in questione il sondino per la nutrizione artificiale) cui invece non ci si vorrebbe sottoporre.
La Corte infine ribadisce la responsabilità del Ssn (il servizio sanitario nazionale) di verificare le suddette quattro condizioni, previo parere del comitato etico territorialmente competente e la necessità che a tutti i pazienti sia garantito l’effettivo accesso alle cure palliative su tutto il territorio nazionale. In definitiva, con tale sentenza la Corte, sensibile alle questioni sottoposte, ha dato una interpretazione più estesa dei trattamenti di sostegno vitale, ampliando così la platea di coloro che da domani possono ricorrere al suicidio assistito (o possono farne oggetto di disposizioni anticipate di trattamento). Così facendo la Corte si è spinta fino alle colonne d’Ercole oltre cui può navigare solo il legislatore, com’è giusto che sia in materie così delicate ed eticamente sensibili in cui non è il giudice ma la politica che deve decidere, fissando regole uguali per tutti. Peccato però che, nonostante le ripetute sollecitazioni di una Corte capace di fare sintesi al suo interno (da qui l’inedita scelta di due giudici relatori e redattori), questa politica, vittima dei propri radicalismi, ha finora dimostrato di non averne né la capacità, né la forza.