Il nuovo reparto anti-rivolte
Carceri più sicure, la ricetta è più relazioni umane e meno repressione
Serve farsi forti di un concetto di sicurezza che non si basa sulla repressione ma sulla relazione. In un circolo virtuoso che può ripercuotersi anche sul detenuto contribuendo al suo pieno reinserimento sociale riducendone anche la recidiva.
Giustizia - di Elisabetta Zamparutti
Tutto è in evoluzione. Anche i concetti e la loro pratica. Pensiamo all’educazione. Non molto tempo fa si ricorreva alle pene corporali per correggere comportamenti di bambini considerati inappropriati oppure li si umiliava.
I figli del baby boom certamente ricorderanno quando la maestra mandava dietro la lavagna chi disturbava in classe. Oggi nessuno si sogna di prendere a ceffoni un figlio o di bacchettare un alunno, men che mai di esporlo al pubblico ludibrio quando si ritiene abbia sbagliato.
Organizzazioni internazionali, con mozioni e risoluzioni, incoraggiano una genitorialità positiva e nonviolenta. Poi c’è la sicurezza. Concetto ancora intriso di repressione quando invece è possibile, direi indispensabile, mutarlo verso una concezione improntata alla relazione.
I fatti accaduti al carcere minorile Beccaria di Milano, prima il 7 maggio poi alla fine del mese di maggio, contribuiscono a far comprendere quanto questa evoluzione sia necessaria e urgente. Lo è a partire dalle difficoltà che il personale, a cominciare dalla polizia penitenziaria, incontra sul luogo di quotidiano lavoro.
Perchè il carcere, per quanto in un istituto minorile il regime possa essere più flessibile, resta uno spazio in cui gli aspetti securitari sono dominanti. Dominano sull’ambiente di lavoro e sulle relazioni umane.
Il coinvolgimento emozionale che deriva dalla costante esposizione all’angoscia di chi vi è recluso, a vissuti intrisi di dolore, al senso di sbandamento, è condizione di per sé stressante.
In una situazione che è ulteriormente aggravata dal sovraffollamento, dalla ricorrente mancanza di risorse oltre che da condizioni materiali spesso degradanti.
Per quello che ho potuto constatare nel corso delle visite agli istituti penali che con Nessuno tocchi Caino mi hanno portata a entrare nell’ultimo anno e mezzo in circa 150 delle 189 carceri del nostro Paese, posso dire che il compito affidato alla polizia penitenziaria è tale da esporre sempre di più gli agenti a continue prove e sfide tanto fisiche quanto psichiche.
È come se fossero stretti in una tenaglia. Da un lato aumenta il sovraffollamento con un crescente allentamento delle interazioni con i detenuti. Dall’altro, l’accresciuta presenza di detenuti con disordini mentali amplia le difficoltà dell’interazione stessa.
Un allentamento del legame detenuto-detenente che si traduce, per tutti, in un’esperienza logorante, in un senso di solitudine e di complessiva frustrazione.
Il dibattito pubblico è stato alimentato dalle notizie sulla cronaca dei fatti accaduti al Beccaria e dall’immediata decisione di creare, con decreto ministeriale del 14 maggio, il GIO, “reparto di rapida reazione operativa, specializzato nella protezione e tutela della sicurezza delle strutture penitenziarie e delle persone in caso di rivolta in carcere”.
Non vi è spazio di parola e di azione per valutare diverse e nuove forme di gestione della sicurezza improntate alla creazione e al rafforzamento di significative relazioni umane.
In una recente visita in un carcere, un detenuto, nel descrivere la sua condizione di pena e nel tentativo di spiegare il perché di così tanta afflizione mi ha detto: “noi detenuti siamo troppo immaginati”.
Perché in effetti il carcerato continua a essere pensato, dunque trattato, come una costante minaccia dalla quale bisogna proteggersi. Con la conseguenza che chi è preposto al suo controllo è costretto su una posizione difensiva, sulla concezione che la miglior difesa è l’attacco.
Tutto si svolge in un recinto dove il confronto è fisico e l’arma della parola ha la punta smussata. Quando invece l’interazione tra persone e la gestione dei conflitti dovrebbe farsi forte proprio della parola, della sua pertinenza, del suo vigore, della sua forza di attrazione, influenza e propagazione.
Perché la vera sicurezza dipende non dai rapporti di forza ma dalla forza del legame che si crea tra persone come avviene tra gli organismi viventi.
Questo significa che la stessa formazione degli agenti penitenziari deve lasciare più spazio ai metodi di costruzione di significative relazioni umane.
Serve farsi forti di un concetto di sicurezza che non si basa sulla repressione ma sulla relazione. In un circolo virtuoso che può ripercuotersi anche sul detenuto contribuendo al suo pieno reinserimento sociale riducendone anche la recidiva.