Parla il procuratore

“Vi racconto la mia caccia ai nazisti”, intervista al procuratore De Paolis

Pg presso la Corte militare d’appello, è tra i massimi esperti in Italia sui crimini di guerra. Ha istruito i processi contro gli autori delle stragi naziste, a lui si devono le indagini sugli eccidi di Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema. La sua storia in un libro con la prefazione di Liliana Segre

Interviste - di Giovanni M Jacobazzi

6 Giugno 2024 alle 15:30

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MARCO DE PAOLIS, PROCURATORE GENERALE MILITARE PRESSO LA CORTE MILITARE D’APPELLO
MARCO DE PAOLIS, PROCURATORE GENERALE MILITARE PRESSO LA CORTE MILITARE D’APPELLO

“La magistratura militare è una piccola magistratura ma si occupa di cose grandi”, afferma Marco De Paolis, procuratore generale militare presso la Corte militare d’appello.

De Paolis è da tutti considerato come uno dei maggiori esperti in Italia sui crimini di guerra della seconda guerra mondiale. Un settore dove ha istruito i più importanti processi contro gli autori delle stragi naziste che hanno insanguinato il Paese dall’8 settembre del 1943 al 25 aprile del 1945.

Complessivamente sono stati ben 500 i procedimenti incardinati da De Paolis, poi definiti con 57 condanne all’ergastolo in primo grado. A lui si devono le indagini sulle stragi più efferate commesse dai nazisti in Italia, quella di Marzabotto con oltre 800 vittime, e quella di Sant’Anna di Stazzema dove morirono 470 civili inermi.

Il magistrato è stato insignito dell’onorificenza di Grande ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Federale di Germania per “la meritevole attività giudiziaria svolta nella repressione dei crimini nazifascisti in Italia e all’estero”. Recentemente per raccontare la sua attività ha scritto un libro, “Caccia ai nazisti”, edito da Rizzoli e con la prefazione di Liliana Segre.

Procuratore De Paolis, iniziamo specificando quali sono state le competenze della magistratura militare nelle stragi naziste.
La magistratura militare si è occupata dei reati dei militari nazisti commessi in danno dei cittadini italiani: sia di civili e sia di militari, prigionieri di guerra. Ed anche di quelli commessi dai militari italiani con i tedeschi. Si tratta di reati, come confermato anche dalla giurisprudenza, imprescrittibili.

Le amnistie, ad iniziare da quella voluta da Palmiro Togliatti, hanno condizionato le indagini?
No. Le amnistie non si sono mai applicate agli stranieri.

Come si svolsero le indagini? Quest’anno ricorre l’anniversario degli 80anni della Strage delle Fosse Ardeatine e della Liberazione di Roma.
Ci sono state diverse fasi. La prima va dal dopoguerra fino al 1960. In quel periodo ci furono le prime sentenze per Herbert Kappler nel 1948, Walter Reder nel 1950, e poi Wilhelm Schmalz, Eduard Strauch e Otto Wagener. Si trattò di processi, cinque in tutto, che definirei “simbolici” in quanto avevano un problema di fondo: la responsabilità degli eccidi era solo del comandante che aveva dato l’ordine. Ma ciò non poteva essere. Per la legge la responsabilità era anche degli esecutori. Non valeva la giustificazione di aver eseguito degli ordini che erano manifestamente criminali.

Dopo questi cinque processi cosa successe?
Si arriva ad una data che segna una pagina oscura per la giustizia. Il 14 gennaio 1960 l’allora procuratore generale militare Enrico Santacroce firmò l’archiviazione provvisoria per ben 695 procedimenti. In tal modo, senza fare indagini, tutti questi fascicoli finirono di fatto “insabbiati”.

I fascicoli, nel 1992, vennero ritrovati in circostanze mai chiarite a Palazzo Cesi, sede del vertice della giustizia militare, in quello che sarà definito “l’armadio della vergogna”.
Su questo nessuno è in grado di dire se fosse un armadio nascosto o uno scaffale. Si trattò comunque di un atto non previsto dall’ordinamento giuridico italiano e pertanto furono successivamente istituite due Commissioni di inchiesta: la prima, interna alla magistratura militare, fu istituita nel 1996 dal Consiglio della magistratura militare. La seconda, invece, ebbe il rango di Commissione parlamentare di inchiesta e fu istituita nel 2003 (Commissione di inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti).

Cosa accertarono?
Che si trattò appunto di un atto illegittimo. Ci furono due relazioni, una di maggioranza, dell’allora centrodestra, ed una di minoranza, dell’opposizione di centro sinistra. Per la prima fu solo negligenza del procuratore. Per la seconda fu un insabbiamento dovuto alla ragione di Stato. Non si voleva in quegli anni caricare troppo di responsabilità la Germania, in un momento difficile con i blocchi contrapposti, e si voleva anche evitare di parlare dei crimini commessi dai militari italiani contro le popolazioni dei Balcani ed in Etiopia.

I fascicoli recuperati vennero esaminati?
Si, l’esame di questo materiale consentì così di ripartire e trasmettere alla fine del 1994 i fascicoli in funzione della competenza territoriale ove i fatti si erano svolti. In particolare, 108 alla Procura militare di Verona, 119 a quella di Torino, 87 a quella di Padova, 129 a quella di Roma, 214 alla quella di La Spezia, dove ho prestato servizio.

Nel frattempo, a proposito della strage delle Fosse Ardeatine, ci fu una svolta?
Nel 1992 un giornalista americano intervistò in Argentina il capitano delle SS Erick Priebke. Si trattava di un latitante su cui pendeva un mandato di cattura che non era mai stato eseguito. Si riattivò allora la macchina giudiziaria e Priebke venne estradato in Italia. Nel 1996 si aprì il processo a Roma nei suoi confronti.

E dei fascicoli cosa accadde?
Ci fu inizialmente una nuova fase di processi – tra il 1994 e il 2001 – con alcune condanne. Poche, in verità: soltanto quattro. Solo più tardi, in una terza fase che inizierà nel 2002 in coincidenza con l’inizio a La Spezia della mia attività di procuratore, si aprirà una terza e più significativa stagione processuale che porterà in pochi anni a ben 17 processi e a 57 condanne all’ergastolo in primo grado.

Cosa l’ha colpita di più in questi anni?
Una intervista nel 2002 alla televisione tedesca del caporale delle SS Albert Mayer, comandante della squadra che si rese responsabile della strage di Cerpiano il 29 settembre del 1944 dove morirono cinquantasette persone, quasi tutti bambini, donne e uomini anziani, uccisi con le bombe a mano e mitragliatrici dopo essere state chiuse in una stanza. Gli ordigni furono gettati a più riprese e a distanza di tempo. Sotto i cadaveri rimasero vivi due bambini e una maestra orsolina, Antonietta Benni, che in un memoriale descriverà il massacro. Mayer descrisse al giornalista che lo intervistava le sue vittime come dei “loschi bacilli di sinistra”, affermando come nulla fosse di aver preso “a calci in culo dei porci partigiani”. Come era possibile, mi chiesi, subire una onta del genere da parte di un soggetto che era tranquillamente a casa sua e a cui nessuno aveva mai chiesto di rispondere delle sue azioni?

Ha avuto senso fare processi a persone molto anziane?
Al di là della possibilità concreta di far scontare la pena o di ottenere dei risarcimenti, c’è stato il dovere morale e l’obbligo giuridico di perseguire questi criminali di guerra, responsabili di inaudite atrocità su civili inoffensivi. Sono stati commessi massacri terribili che non possono essere dimenticati. Come ho più volte sottolineato, il dolore, il lutto non vanno in prescrizione e accompagnano gli orfani e i familiari per tutta la vita. Non può essere il tempo a dire se una persona è un criminale o meno, ma solo e soltanto la legge.

6 Giugno 2024

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