La zona di ricerca e soccorso
Cos’è veramente la zona Sar: così l’Italia aiuta la Tunisia di Saied ad affogare persone
È il Viminale a preparare tutti gli incartamenti per il governo criminale di Tunisi per registrare una zona di competenza tunisina nei soccorsi ai naufraghi. Peccato che gli agenti tunisini i naufraghi li affoghino
Editoriali - di Luca Casarini
“La Tunisia avrà presto un proprio sistema per la ricerca e il salvataggio delle persone in mare, come previsto dagli obblighi e impegni internazionali. Accolgo la notizia dell’intenzione di istituire una zona Sar tunisina, che rappresenta un significativo passo avanti per il salvataggio di vite umane e il controllo dei flussi di migrazione irregolare”.
Nel ridicolo supermercato della propaganda elettorale per le europee, il Ministro Piantedosi sta esponendo la “sua” mercanzia migliore: arresti, sequestri di cocaina, terrorismo, manganelli e lacrimogeni, e tutto l’armamentario della solita, insana, autocelebrazione.
Ma cosa c’entra la zona Sar tunisina con le attività poliziesche? Beh, non ci vuole un profiler dell’Fbi per capire, che la scelta di mettere tra i successi del Ministero degli Interni italiano, anche questa buffonata della “zona Sar tunisina”, fa parte delle attività di polizia e non della sicurezza in mare.
Le “zone Sar”, istituite nei paesi rivieraschi dove non vi è alcun “place of safety”, sono una copertura ormai rodata dell’attività illegale e spesso criminale, per la cattura e la deportazione di persone migranti. Il modello è quello libico.
E’ la task force del Viminale che prepara gli incartamenti, come fece già dai tempi di Minniti per il governo fantoccio di Tripoli, e istruisce le pratiche presso l’Imo, l’organismo delle Nazioni Unite presso il quale “registrare” la propria zona Sar.
E’ la Meloni ad ammetterlo candidamente nel corso di una intervista con Il Sole 24ore: “ Un passo avanti recentissimo per contrastare l’immigrazione, è costituito dal lavoro finalizzato a decretare un’area Sar tunisina. Domani il Gruppo di Lavoro misto italo-tunisino – ha ricordato – si riunirà qui a Roma per assistere le autorità marittime di quella nazione per la stesura del relativo piano.”.
Lo stratagemma, che è parte integrante di quella infrastruttura dell’illegalismo di stato messa in campo per respingere in ogni modo esseri umani poveri che chiedono aiuto ed asilo ai nostri paesi ricchi, prevede di utilizzare impropriamente le zone di ricerca e salvataggio, per farle diventare area di scorribanda navale di agenti armati, che impediscano l’approdo sulle coste europee alle persone in fuga, e le riconducano nei luoghi dai quali tentano di fuggire.
Ovviamente, e per questo Piantedosi, un ministro di polizia, ne rivendica la paternità, nulla hanno a che fare con il proposito di “salvare”: basti pensare a che cosa capita, se rimangono vivi dopo gli arrembaggi dei “soccorritori” che spesso sparano o speronano le barche dei migranti, ai fuggiaschi catturati dopo che vengono ricondotti nei porti di paesi come la Libia o la Tunisia: detenzione, lager, deportazione nel deserto, per dire solo alcune delle forme di “accoglienza”.
L’autoattribuzione di “zona Sar” serve anche creare un canale sicuro per veicolare il flusso di denaro che viene promesso a questi regimi in cambio dello sporco lavoro di cani da guardia a servizio dell’Europa ricca contro i migranti.
Dopo la presentazione del “Piano Sar”, l’istituzione formale di un Jrcc (un centro di coordinamento marittimo ), bisogna creare l’infrastruttura necessaria, composta di uomini e mezzi, a poter giustificare quello che la Convenzione di Amburgo e la Unclos richiede nel caso di una “presa di responsabilità” di uno stato sul garantire la sicurezza della navigazione su una zona di mare composta in prevalenza da acque internazionali.
E’ attraverso questo canale, formalmente legale, che formazione del personale, fornitura di mezzi e supporto logistico, diventano la scusa per veicolare fondi, sui quali i vari gruppi di potere locali possono fare la cresta.
Inoltre, attraverso questo alibi, si possono utilizzare fondi previsti per la cooperazione con l’Africa, come già visto in Libia, che sono al riparo di eventuali controlli o subordinazione al rispetto dei diritti umani.
Sotto la generica voce di “missioni estere” vengono approvati dal parlamento italiano i patti con la Libia, nonostante le stesse Nazioni Unite, Unhcr e Iom, definiscano tale paese “un posto non sicuro” e sollecitino le autorità europee a non cooperare con le deportazioni di migranti.
Sotto la voce “cooperazione con l’Africa”, anche l’Unione Europea, finanziando i “programmi di sviluppo”, può incanalare fondi neri come pagamento per una attività illegale e criminale come la cattura di profughi e richiedenti asilo.
Saied, l’autocrate tunisino, in questi giorni sta facendo arrestare avvocati difensori dei diritti umani, attivisti e soccorritori. Ma tutta questa infrastruttura, dalle zone Sar fasulle alle deportazioni nel deserto, ha bisogno di una “dissimulazione”: una cortina fumogena che nasconda il più possibile alla vista delle opinioni pubbliche nostrane, e a giudici della Corte Penale Internazionale coraggiosi, le cose peggiori.
E qui entra in campo la seconda Task force, sempre italiana, che questa volta ha nelle ambasciate di Tripoli e Tunisi, un suo punto di riferimento.
Il lavoro di “dissimulazione” viene agito soprattutto attraverso un miglioramento della comunicazione. Innanzitutto quello che spiegano i nostri esperti ai loro allievi dell’altra sponda, è che “tutto deve essere fatto in nome della lotta all’immigrazione irregolare”. E’ la “lotta agli scafisti sull’intero globo terraqueo” che deve risaltare come nuova “fonte del diritto”, anche a violare diritti.
E dunque siti di faccendieri di milizie libiche al servizio temporaneo del governo messo in piedi dall’occidente, si trasformano in agit prop della “professionalità” della cosiddetta “guardia costiera libica”, che pur vede fior fiore di ricercati per crimini contro l’umanità tra i suoi ranghi più alti.
Uno di questi faccendieri, il più noto, un misto tra il mitomane e il millantatore, si è scoperto essere cittadino canadese, che ha avuto qualche appalto anche da Frontex. E’ attualmente indagato in Italia per minacce.
Il suo sito, di “giornalismo indipendente” dice lui, oggi è totalmente dedicato a magnificare la grande umanità dei miliziani, sempre armati, immortalati mentre compiono retate di migranti a destra e a sinistra.
Anche in Tunisia, dopo i proclami razzisti dell’autocrate, che ha parlato di “piano di sostituzione etnica per trasformare la Tunisia da paese arabo musulmano, in paese africano- cristiano”, piano ordito secondo lui dal “grande complotto pluto giudaico massonico”, la task force “rifacciamoci la facciata”, in azione da Roma, ha provveduto a consigliare diverso linguaggio e diversa postura se “vogliamo che i soldi arrivino”.
Ed ecco allora che, mentre si scatenano gli arresti degli oppositori politici che hanno la colpa di denunciare le gravissime violazioni dei diritti umani a danno di donne, uomini e bambini migranti, attraverso i social il Ministero degli Interni tunisino comunica “una grande operazione contro un’organizzazione criminale dedita al traffico di esseri umani su ampia scala: sequestrati ventimila euro, e un’auto di grossa cilindrata, riportata in foto. Una vecchia Golf impolverata. Arrestati otto pericolosi criminali, accusati di aver fatto affari per la astronomica cifra di settantamila euro”.
Praticamente niente. Ma è questa la lotta agli scafisti che fanno i governi: anche quello italiano incarcera quelli che guidano la barca, perché sono gli unici che sanno cos’è il timone, oppure quelli che durante il viaggio in mare, distribuiscono l’acqua.
“E’ la prova che sono favoreggiatori”. Intanto, i trafficanti veri, si prendono i governi e diventano ufficiali delle cosiddette guardie costiere. Ma che importa: basta che i poveri, sulle nostre coste non arrivino.
Deve esserci stato un certo disappunto dalle parti del Viminale ieri, quando papa Francesco ha detto che “nel migrante troviamo Cristo, e quello che facciamo ad un fratello o sorella migrante, lo facciamo a Cristo”. Non bastano più i lager, i campi di detenzione in Albania, le morti in mare: ci vogliono le croci