Il docente della Columbia

Intervista ad Alexander Stille: “Vogliono intimidire le università considerate la resistenza a Trump”

"Il presidente critica l’operazione a Rafah, non nasconde la sua avversione nei riguardi di Netanyahu, ma poi decide di inviare 1 miliardo in armi a Israele”, denuncia il docente di giornalismo alla Columbia

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

17 Maggio 2024 alle 14:30

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Intervista ad Alexander Stille: “Vogliono intimidire le università considerate la resistenza a Trump”

La sua è una testimonianza diretta, dal “campus” verrebbe da dire, oltre che un’analisi preziosa per capire meglio cosa sta accadendo nelle più prestigiose università statunitensi e fuori da esse. In una di queste università, tra le più importanti, la Columbia University, Alexander Stille insegna giornalismo.

Stille collabora con prestigiose testate come The New Yorker e The New York Times. Tra i suoi libri, tradotti in Italia, ricordiamo La forza delle cose. Un matrimonio di guerra e pace fra Europa e America (Garzanti); La memoria del futuro. Come sta cambiando la nostra idea del passato (Mondadori); Cinque famiglie ebraiche durante il fascismo (Garzanti); Il suo ultimo lavoro The Sullivanians: Sex, Psychotherapy, and the Wild Life of an American Commune Farrar, Straus & Giroux, ha riscosso un successo di critica e di lettori.

Professor Stille, cosa sta accadendo nei campus americani? C’è chi parla di un nuovo ’68, chi evoca la stagione del Vietnam. Tutto questo per la Palestina, o c’è dell’altro?
L’impulso iniziale che ha animato gli studenti è stata la tragedia umanitaria che si sta consumando a Gaza, da quando Israele ha avviato la sua operazione militare dopo l’attacco brutale di Hamas del 7 ottobre. Si è trattato, a mio avviso, di un impulso genuino. Tra gli studenti che hanno dato vita all’accampamento alla Columbia, molti sono ebrei di sinistra indignati dalla politica di Netanyahu e dalla morte di decine di migliaia di palestinesi. Soltanto che quell’impulso ha scatenato una serie di altre reazioni.

Vale a dire?
Gli studenti, come è normale per i giovani, sono animati da una visione di un mondo in bianco o nero, senza sfumature intermedie. Hanno adottato pratiche e slogan un po’ semplicistici, e sbagliati, come “Palestina libera dal fiume al mare”, con una radicalità che ha finito per alimentare un clima che per studenti ebrei, anche se c’erano molti studenti ebrei anche tra i manifestanti, è diventato pesante e che ha generato proteste di segno opposto, con le università che si sono trovate in grande difficoltà nel gestire una situazione che si è fatta di giorno in giorno sempre più complicata. Si trattava di bilanciare il diritto alla protesta con i diritti di altri studenti di non trovarsi in un clima ostile. Questo periodo di equilibrio instabile è durato per dei mesi, con certi momenti di sconfinamento, in cui le università hanno dovuto “disciplinare” studenti, da una parte e dall’altra, che si erano comportati in modo scorretto, non limitandosi a protestare contro la politica di Netanyahu ma prendendo a bersaglio studenti che professavano altre idee e viceversa, come è avvenuto quando studenti pro-Israele hanno gettato sostanze tossiche su manifestanti filopalestinesi. Un certo equilibrio si è mantenuto, sia pur con difficoltà, fino a quando non è entrato in campo, e nei campus, l’interesse del Congresso che ha cercato di piegare quello che stava avvenendo nelle università agli interessi di parte della politica nazionale.

In che modo è avvenuta questa “invasione” di campus?
A gennaio hanno chiamato i presidenti di Harvard, MIT, University of Pennsylvania, accusandoli di mancanza di vigilanza contro l’antisemitismo. Le loro risposte sono sembrate deboli, per alcuni versi contraddittorie, alquanto generiche, e alla fine sono stati costretti a dimettersi. La presidente della Columbia è stata chiamata a rapporto da questo Comitato congressuale ad aprile. C’è una cosa che andrebbe capita meglio rispetto a quello che si è detto e scritto in Italia.

Di cosa si tratta, professor Stille?
Le grandi università americane, anche quelle private come la Columbia, Harvard, MIT, l’Università della Pennsylvania, dipendono molto dalle sovvenzioni pubbliche, che sono potenzialmente a rischio. Borse di studio, grandi finanziamenti per la ricerca. La Columbia, ad esempio, riceve qualcosa come 1,2 miliardi di dollari all’anno dal Governo federale. Questo è potenzialmente a rischio. Esiste il “Title 6” di una legge che era stata fatta soprattutto per proteggere i diritti civili ma che in questo momento viene utilizzata da questo Comitato del Congresso come una specie di clava contro le università perché, si afferma, non fanno il necessario per difendere i diritti di una minoranza religiosa, gli studenti ebrei, violando così il “Title 6”. Nel far questo contro le università, usano come pretesto l’antisemitismo. In realtà si tratta, a mio avviso, del tentativo della destra americana di indebolire, intimidire, le università che sono considerate un polo di resistenza ideologico alla visione del mondo di Donald Trump e della destra fondamentalista repubblicana. La Columbia si è trovata al centro di un dibattito nazionale.

In che modo?
Mentre la presidente della Columbia, Minouche Shafik, era a Washington il 17 aprile, gli studenti hanno approfittato della sua assenza per creare un accampamento sul prato accanto all’edificio in cui insegno, in mezzo al campus, che è piccolo. Essendo un campus nel cuore di Manhattan, nella New York capitale mediatica degli Stati Uniti, ciò che accadeva nel campus è diventato subito un caso politico e mediatico nazionale. La presidente, avendo preso l’impegno davanti al congresso, di non tollerare alcun episodio o sintomo di antisemitismo nel campus e di rafforzare i regolamenti attorno ad una protesta legittima, ha deciso di chiamare la polizia per sgomberare l’accampamento alla Columbia, ancor prima di far rientro a New York. Tutto questo ha sortito l’effetto, del tutto prevedibile, di rafforzare la protesta, radicalizzandola. E la protesta non ha riguardato più solo gli studenti e il campus ma centinaia di persone si sono riversate ai cancelli della Columbia. Si è creata un’atmosfera di disordine, di estremismo, molto più fuori i cancelli dell’università che dentro. Questa situazione è andata avanti per 12-13 giorni, fino al 30 aprile, quando gli studenti hanno occupato un palazzo dell’università. Nello stesso giorno e nello stesso palazzo di una famosa occupazione nel 1968, durante la guerra in Vietnam. A quel punto, la presidente della Columbia ha chiamato una seconda volta la polizia, che è intervenuta con molta più forza, creando un’atmosfera militarizzata nel campus, con centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa che hanno sgomberato il palazzo, smantellato l’accampamento, fatto decine di arresti, creando così un’atmosfera cupa, negativa nell’università. I professori sono molto arrabbiati, si è generato un clima di sfiducia tra il corpo docente e la presidente. La situazione è brutta. E c’è chi soffia sul fuoco…

Chi, professor Stille?
Beh, Il sindaco di New York, Eric Adams, ha proclamato, senza uno straccio di prova, che l’accampamento alla Columbia fosse finanziato da qualche gruppo esterno, a giudicare dal fatto che tutte le tende del campus apparivano molto simili. Quando è stato chiesto loro di questo, gli studenti hanno risposto che le tende erano simili perché le avevano tutte comprate su Amazon, che le stava vendendo in offerta. Il punto, però, è un altro, ed è altamente rischioso.

Di cosa si tratta?
Per l’importanza mediatica di ciò che avviene nel cuore di New York, e per ciò che rappresenta la Columbia University, l’accampamento propalestinese è stato replicato in molti altri atenei americani, creando tensione e offrendo una occasione d’oro a Trump e ai repubblicani di farne una questione politica centrale nella campagna elettorale per le presidenziali di novembre.
Le università sono bacini di estremismo e di disordine, Biden è impotente e incapace di tenere a bada la situazione, io rappresento l’ordine, il buon senso. Ecco dove siamo ora.

Lei ha fatto riferimento a Biden e ai democratici. Non c’è il rischio che ciò che sta avvenendo nelle università e fuori di esse, complichi ulteriormente la già problematica campagna elettorale dei Democratici per la rielezione di Biden?
Certo che sì. Biden, paradossalmente, rischia di perdere consensi sia a sinistra che al centro. Le sue posizioni, inizialmente molto solidali con Netanyahu, poi cercando di prenderne un po’ le distanze ma neanche tanto, gli hanno alienato molti elettori giovani, elettori neri, l’ala progressista del suo partito. D’altro canto, il suo atteggiamento sempre più critico nei confronti d’Israele e quello più incerto nei confronti delle proteste rischiano di fargli perdere i voti al centro, tra gli indecisi, tra gli elettori ebrei centristi che votano democratico ma sentono una forte appartenenza con Israele. Critica l’operazione a Rafah, non nasconde la sua avversione nei confronti di Netanyahu e il suo governo di estrema destra salvo poi decidere di inviare 1 miliardo di dollari in armi a Israele. Biden si trova nel peggio dei due mondi, perdendo a sinistra e al centro, aggravando una situazione già non facile. Le cose nel mondo politico possono sempre cambiare, ma per ora non è un quadro molto allegro per Biden.

Ritornando agli studenti. Spesso, e non è solo un vizio giornalistico, si tende ad appiccicare una etichetta alle giovani generazioni. Se lei dovesse definire questa generazione di studenti, in che termini lo farebbe?
Le generalizzazioni non mi sono mia piaciute. Perché costruiscono gabbie omologanti, alimentando stereotipi e parallelismi che non stanno in cielo né in terra. I giovani di oggi, penso ai miei studenti, sono svegli, smart, intelligenti, né indifferenti politicamente né super impegnati. Quelli che protestano, vedono il mondo in bianco o nero, ma questo è tipico dell’adolescenza in genere e non credo che sia una prerogativa di questa generazione.

17 Maggio 2024

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