L'invio delle armi
Meloni compra 900 missili anticarro Spike israeliani
Al di là delle dichiarazioni di facciata, la Lega si farà andare bene l’acquisto di 900 siluri anticarro israeliani già prenotati dal governo
Politica - di David Romoli
La guerra in Ucraina per Giorgia Meloni è stata un affare d’oro. Come quelle carte speciali che nel gioco del Monopoli permettono di saltare una quantità di caselle le esigenze europee derivate da quel conflitto le hanno permesso di conquistare in tempi brevissimi una credibilità e una legittimazione internazionali per le quali, senza la guerra avrebbe dovuto sudare a lungo, subendo esami occhiuti e sospettosi d’ogni tipo.
Quella carta la premier non vuole bruciarla e comunque non potrebbe a questo punto metterla da parte anche se iniziano ad affacciarsi problemi che, col tempo, potrebbero rivelarsi almeno pari ai vantaggi che il conflitto le ha regalato.
Per il nono pacchetto d’aiuti all’Ucraina è questione di poche settimane anche se non è affatto escluso che il governo decida di posticipare a dopo le elezioni europee. Prima di quella scadenza, infatti, una Lega in disperata campagna elettorale potrebbe infatti dar seguito, per la prima volta, alle dichiarazioni ruggenti, ma nei fatti sempre inoffensive, che negli ultimi giorni si sono moltiplicate.
Chigi attribuisce proprio a esigenze elettoralistiche il fuoco leghista contro l’invio delle armi a Kiev, fattosi ultimamente di giorno in giorno più fitto. A parole, il vicesegretario leghista Crippa è stato due giorni fa definitivo: “Diciamo basta a invii di nuove armi a Kiev”.
La premier prende gli alleati tanto poco sul serio da aver avviato l’acquisto di 900 nuovi missili anticarro Spike israeliani. La necessaria autorizzazione alle Camere sarà chiesta nei prossimi giorni, prima del varo del nono pacchetto d’aiuti, e alla Lega non resterà che ingoiare il boccone amaro. Ma gli Spike sono armi di difesa e Salvini troverà probabilmente una via d’uscita impugnando proprio questo elemento, che in effetti non è un particolare.
La scelta sarà molto più sofferta se nel prossimo pacchetto ci sarà una delle cinque batterie Samp-T a disposizione dell’Italia, quella attualmente di stanza in Slovacchia. In quel caso non si può infatti parlare di arma difensiva, essendo il sistema messo congiuntamente a punto da Italia e Francia in grado di colpire in profondità il territorio russo.
I missili Storm Shadow, altro strumento bellico ultramoderno in grado di colpire in profondità e dunque tutt’altro che difensivo, secondo il ministro britannico Shapps l’Italia li starebbe già fornendo a Kiev. È vero che la secretazione sui contenuti degli aiuti, imposta già dal governo Draghi, permette alla Lega di fare finta di non vedere.
Però nessuno può prevedere con certezza quali sarebbero le reazioni di Salvini a un risultato elettorale troppo negativo e nessuno può nemmeno dire quanto a lungo il Carroccio riuscirà a tenere il piede in due staffe, affermando una cosa in pubblico e facendo puntualmente il contrario in Parlamento.
Non è l’unico guaio. Nel colloquio con Giorgia Meloni il segretario della Nato Stoltenberg, tra un complimento e l’altro alla fedelissima alleata, ha trovato modo di insistere sulla necessità che l’Italia si decida a onorare l’impegno assunto nel 2014, portando al 2% del Pil le spese per la difesa.
Le intenzioni del governo italiano sarebbero in realtà opposte. Al momento l’esborso è pari all’1,46%, tra i più bassi d’Europa. Il governo ha stabilito però di portarlo all’,1,43% quest’anno per poi risalire ma solo sino all’1,45% nel 2025.
La Nato non sente ragioni e da quel punto di vista c’è poco da sperare nelle elezioni americane. Biden vuole il 2%. Con Trump le cose per il braccio europeo della Nato e dunque per l’Italia, andrebbero anche peggio.