La corsa verso le europee

Intervista ad Arturo Scotto: “Cecilia Strada e Marco Tarquinio candidature bellissime”

Arturo Scotto: "Strada e Tarquinio sono il segnale di un cambiamento del Pd e di un avvicinamento a mondi che da anni vedevano con diffidenza una linea troppo poco attiva sul terreno dei diritti umani e della costruzione della pace".

Interviste - di Umberto De Giovannangeli - 4 Maggio 2024

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Cecilia Strada e Marco Tarquinio
Cecilia Strada e Marco Tarquinio

Arturo Scotto, parlamentare e membro della Direzione nazionale del Partito democratico. Manca poco più di un mese al voto per le Europee. Il mondo è dentro a una terza guerra mondiale a pezzi, per usare le parole di Papa Francesco, ma in Italia si dibatte sul nome “Giorgia” sulla scheda elettorale e su chi prenderà di più tra Pd e 5Stelle o tra Forza Italia e la Lega. Siamo fuori dal mondo?
Queste europee sono forse le più importanti di sempre. Per la prima volta rischia di prevalere un asse che guiderà la commissione molto spostato a destra. La stessa Von der Lyen non ha esitato a dire che è disponibile anche a governare con quei voti se dovessero risultare decisivi. In un pezzo delle classi dirigenti della destra democratica europea fa meno paura allearsi con i neonazionalisti piuttosto che insistere sulla strada tracciata dal Next Generation Eu. D’altra parte, Ursula ha scortato Giorgia Meloni nei viaggi della speranza in Tunisia per sottoscrivere accordi sull’immigrazione con il dittatore Saied comportandosi come poco più che una dama di compagnia. Non siamo fuori dal mondo se diciamo che occorre dare forza all’unico schieramento che può fermare l’avanzata della destra a Bruxelles: quello del Pse e dunque del Pd in Italia. Mi interessa poco il derby con i Cinque Stelle, abbiamo appena depositato insieme la legge di iniziativa popolare sul salario minimo. Sarà un tema che attraverserà la campagna elettorale dell’opposizione in maniera unitaria e questo è un fatto positivo. Tuttavia, a Bruxelles contano le famiglie politiche e il Pd una famiglia ce l’ha ed è lì dentro che si incide per tenere in vita il modello sociale europeo. D’altra parte, se questo è il quadro dei rapporti di forza in campo non mi stupisce che Meloni chiami il plebiscito dicendo: votatemi come “Giorgia”. Dopo un anno e mezzo di governo, tutto sommato mediocre, gioca la carta emotiva della donna del popolo non sporcata dai compromessi di palazzo. Tuttavia, qui siamo davanti alla torsione massima del populismo: una che ha le leve del comando, che controlla persino i palinsesti televisivi, si spaccia come la signora che va a fare la spesa al mercato e con cui puoi confrontarti sul prezzo degli ortaggi e della carne. Una truffa. Lei non è più Giorgia da almeno 20 anni, ha fatto la ministra, la vicepresidente della Camera, più volte la deputata, oggi la Presidente del Consiglio. La vicinanza al popolo si dimostra con le scelte politiche – e qui la scelta dominante è stata quella di tagliare i sussidi ai più poveri e condonare le tasse agli evasori – non con uno slogan ben congegnato. Davvero una cosa fuori dal mondo. A chi la vuole raccontare?

Sulle liste Pd. C’è chi storce il naso per la candidatura “pacifista” dell’ex direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, o per quella di Cecilia Strada, esponente di quel mondo solidale che non ha lesinato critiche per la deriva securista del Partito democratico ai tempi di Minniti ministro dell’Interno.
Strada e Tarquinio sono candidature bellissime, con un’identità molto forte e con contenuti che parlano a larghi strati della società. La loro coerenza sta innanzitutto nelle cose fatte nella vita precedente alla scelta di partecipare a una campagna elettorale. Sono il segnale di un cambiamento del Pd e di un avvicinamento a mondi che da anni vedevano con diffidenza una linea troppo poco attiva sul terreno dei diritti umani e della costruzione della pace. Vedremo cosa dirà l’elettorato ma la mia lettura è che c’è una parte rilevante dell’opinione pubblica che chiede un netto cambio di fase rispetto al pantano degli ultimi due anni, dove due guerre hanno insanguinato i confini a est e a sud dell’Europa. Chiedono all’Europa di fare il suo mestiere e spendersi per un nuovo multilateralismo non basato sulla dottrina della deterrenza e sulla corsa al riarmo. Mi colpisce il modo in cui il Presidente Macron parla con leggerezza dell’invio di truppe di terra a Kiev. Sono i segni che abbiamo introiettato dentro di noi l’inevitabilità della guerra e di conseguenza un passaggio a un’economia fondata su investimenti sempre più forti sul terreno della sicurezza. Ma quando una società si militarizza la democrazia e i diritti declinano, le libertà civili si affievoliscono e avanza una stretta culturale che influisce anche sull’autonomia di pensiero e di linguaggio. Lo stato della libertà di stampa non è mai stato così precario: la corsa a mettersi l’elmetto, a semplificare, a eliminare le sfumature mi colpisce e mi preoccupa. Quando tutto è nero o è tutto bianco significa che hanno vinto sentimenti autoritari, significa che ha vinto culturalmente proprio Putin nel nostro angolo di pianeta. Guardo alla mobilitazione nelle università, innanzitutto americane, e vedo un racconto troppo manicheo delle ragioni di quella protesta. Sono antisemiti! Questo l’anatema che viene lanciato contro ragazzi di venti anni che chiedono la cessazione della guerra, la fine di un massacro di civili, il rispetto del diritto internazionale.

Criminalizzazione allo stato puro.
Se c’è chi nega il diritto dello Stato di Israele ad esistere e minimizza i fatti terribili del 7 ottobre va combattuto con determinazione e isolato. Allo stesso tempo, forse andrebbero indagate le ragioni per cui una generazione di occidentali torna a chiedere proprio all’occidente e alla più grande potenza del pianeta di evitare di praticare i doppi standard. E dunque a difendere un universo di valori dove non prevalga la legge del più forte. In fondo i cosiddetti “proPal” difendono il diritto di un popolo ad esistere, individuano quale è la parte più povera e più debole nella contesa. Come fu anche col Vietnam. Una frattura che può segnare persino l’andamento delle elezioni americane. Trump dice alla polizia di rimettere ordine nei campus e di dargliele di santa ragione, Biden è in evidente difficoltà. Non sfugge a nessuno che gli Usa sono il primo paese a fornire armi a Netanyahu, nonostante costruiscano il pontile a Gaza di 320 milioni di dollari e abbiano evitato di esercitare il diritto di veto sul cessate il fuoco in Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. La domanda di sospendere i programmi militari comuni, che spesso incrociano anche l’attività delle università, non può essere liquidata come una ingenuità giovanile. Va ascoltata. Mi ha colpito molto un dibattito che ho fatto a Monopoli due settimane fa con il rettore dell’Università di Bari, Stefano Bronzini, organizzato dall’Anpi. Il rettore ha raccontato la sua esperienza con gli studenti dei collettivi che hanno manifestato per Gaza a Bari. Quando sono andati da lui gli hanno detto papale papale: “lei è complice di un genocidio”. Lui gli ha risposto ironicamente: “mi avete visto bene, sono sempre io”. Si sono seduti, hanno parlato per ore, lui ha vietato qualsiasi presenza delle forze dell’ordine nell’università e nel rettorato. Alla fine, hanno stilato un documento comune per chiedere il cessate il fuoco e hanno vagliato tutti i progetti in corso con le università Israeliane. Non ne hanno tagliato nessuno perché l’Università deve essere sempre un luogo di scambio e di confronto internazionale. Hanno solo sospeso la partecipazione a un bando Maeci “dual use”. Il rettore di Bari è lo stesso che rispose male a chi allo scoppio della guerra in Ucraina chiedeva la sospensione delle borse di studio per 32 studenti russi. La cultura è un ponte, cacciare gli studenti significa radicalizzarli e spingerli verso sentimenti nazionalisti, non contribuire a stabilire percorsi verso il dialogo e la pace. Con gli studenti si deve parlare. Sempre.

Benjamin Netanyahu è imputabile di crimini di guerra e contro l’umanità per la mattanza di Gaza?
Non sono un giudice. Non sopporto questo attacco alla Corte internazionale di Giustizia e alla Corte penale internazionale. Penso che vada rispettata la loro autonomia dalle ingerenze degli stati, a partire da quelli che, peraltro, non hanno ancora siglato i trattati che ne riconoscono l’autorità giurisdizionale. Mi limito ad aspettare la sentenza. Ovviamente un giudizio ce l’ho. E credo che quello che sta accadendo a Gaza sia fuori dal seminato del diritto internazionale. Quando impedisci ai camion di aiuti umanitari di entrare a Rafah significa che usi la fame come uno strumento di guerra. E questo è un crimine. Quando vediamo le immagini delle fosse comuni all’ospedale di Khan Yunis ci torna alla mente una pagina buia come quella di Srebrenica. La degna sepoltura dei morti è il primo atto che segna la nascita dell’homo sapiens perché la nostra civiltà si fonda sul rito funebre, per chi crede e per chi non crede. Quelle immagini ci dicono che non sono serviti a nulla secoli di letteratura: penso all’Antigone di Sofocle che invoca il diritto alla sepoltura del fratello in nome delle leggi “non scritte e innate degli dei”.

La politica è fatta di visione, progetto, idealità ma anche di alleanze. Rimarca Goffredo Bettini in una impegnata intervista a l’Unità: “La prospettiva futura non può che basarsi sull’unità delle forze democratiche. Con il Pd e il M5s inevitabilmente alleati. Conte ha utilizzato alcune situazioni di nostre difficoltà in modo ruvido e pensando molto al suo partito. L’importante è non superare un limite di guardia, oltre il quale tutto sarebbe perduto. Sento, tra molte compagne e compagni, emergere la legittima esigenza di porre al centro il Pd nella costruzione di un’alternativa. Un tempo si sarebbe detto: porsi come la forza “egemone”. Ricordo, tuttavia, che l’egemonia si conquista sul campo, esercitando una funzione generale, democratica e nazionale. Non facendo i più duri con i duri. Insomma: se gli altri sono meno unitari, noi dobbiamo fare l’unità per due. Questo sta nella storia delle grandi forze progressiste e popolari che hanno fondato la Repubblica”. Lei come la vede?
Io non ho mai creduto alla vocazione maggioritaria. Non esiste alcun governo in Europa che non sia di coalizione, spesso anche molto eterogenea come in Germania dove i liberali si sono alleati con socialdemocratici e verdi. Nel nostro paese l’illusione del bipartitismo ha animato il dibattito di qualche laboratorio di politologia, ma non ha mai avuto un atterraggio reale nella società. Per questo io continuo a pensare che questo paese dovrebbe avere una robusta cura di proporzionale, dare fiato alla rappresentanza, altro che premierato! Quando vota un cittadino su due significa che la democrazia si gioca solo in una metà campo e solitamente chi non partecipa è la fetta più povera ed emarginata della società. Quella che dalla politica non attende più alcuna risposta rispetto alla propria condizione materiale. Riportare le persone alla partecipazione è la sfida più impervia ed è qui che si gioca la sfida dell’egemonia. Sono d’accordo con Bettini che non si è egemoni solo se si esibiscono i muscoli con chi è potenzialmente il tuo alleato. Anche se questo alleato spesso si distingue nella tentazione vampiresca di succhiarti il sangue mordendoti il polpaccio nei tornanti più difficili. Eppure, credo che Il Pd di Elly Schlein debba avere come bussola fondamentale quello di costruire l’alternativa alla destra.

4 Maggio 2024

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