Il caso del manager
Domenico Arcuri infangato dai media, ma nessuno gli chiede scusa: erano tutte balle
La cricca delle mascherine, l’ombra della corruzione: al manager la stampa ha imputato di tutto. Salvo scoprire ora che erano tutte balle
Editoriali - di Andrea Camaiora
Ennesima occasione persa per la stampa italiana di fronte all’ultima puntata del presunto scandalo delle mascherine che ha visto nella bufera per mesi l’ex amministratore di Invitalia, Domenico Arcuri, manager per lunghi e interminabili anni molto rispettato e considerato che è poi finito vittima non tanto e non solo del consueto processo mediatico ma di un regolamento di conti in quanto considerato figura da avversare perché vicino all’ex premier Conte.
Chi ha buona memoria sa invece la considerazione trasversale, anche al mondo politico, di cui Arcuri ha sempre goduto e in base alla quale veniva considerato utilissimo per essere impiegato anche nelle missioni più disperate: da Ilva a Corneliani, da Sicamb a Canepa e a Whirpool.
Il risultato di una serie di assiomi immutabili del giornalismo italiano, primo fra tutti quello di non smentirsi anche quando si prendono fischi per fiaschi, ha portato a resoconti surreali dell’ormai quasi concluso processo in cui quasi tutte le testate che si sono occupate del caso hanno riferito che i pm hanno chiesto una condanna a un anno e 4 mesi per… abuso di ufficio.
Ma come? E che fine ha fatto la cricca delle mascherine, gli interessi loschi e opachi? Dov’è finita la corruzione di cui – secondo molti all’inizio di questa vicenda – vi sarebbe stata più di una prova? Le ipotesi di reato erano state derubricate da quel dì, ma dovrebbe far piacere sapere che non vi sono stati indebiti arricchimenti da parte di un manager pubblico.
Che non vi è stato nulla se non il tentativo di reperire, ovunque e nella maggior quantità possibile, dispositivi di protezione che venivano considerati indispensabili da tutti in Italia e nel mondo mentre restavamo sgomenti per i camion dell’esercito pieni di cadaveri a Bergamo, nelle stesse settimane in cui il nostro Sistema Sanitario Nazionale sembrava collassare visto il rischio di saturare i posti letto di terapia intensiva.
Dunque non c’è proprio granché di cui indignarsi. E forse è questo il problema, perché ci sarebbe piuttosto da raccontare la storia di un manager apprezzato, il cui operato senza risparmio di energie nei momenti più drammatici della pandemia era stato macchiato dalla stampa con l’onta di interessati favoritismi, che ancora una volta accetta il confronto, anche quello severo dell’autorità giudiziaria.
E cosa fa? Arcuri non si difende dal processo ma nel processo. Di più: sapendo che il reato che gli viene contestato è l’abuso di ufficio e che questo reato ha i giorni contati, perché è incardinato un iter legislativo per abolirlo, anziché rallentare la giustizia aspettando che sia il Parlamento a eliminare il problema all’origine, chiede il giudizio abbreviato per uscire dalla vicenda chiarendo tutto nel merito e tutelare fino in fondo la propria onorabilità, quella dei propri collaboratori e del lavoro svolto al servizio dell’Italia.
Non toglie nulla alla simpatia o antipatia verso qualcuno, riconoscere che ha scelto di tenere un contegno degno. Al contrario, nutrirsi (e alimentare il dibattito pubblico) di indignazione a basso costo non aiuta mai nella ricerca della verità.
*Esperto in reputation management