La guerra in Medioriente
Intervista a Renzo Guolo: “Gli Usa si battano per due Stati”
«Lo scontro Israele-Teheran rischia di mandare in soffitta il dibattito che si è riaperto su questa soluzione. Netanyahu dipende da forze fondamentaliste che non sono compatibili con la democrazia»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Lo scontro Israele-Iran, la guerra di Gaza che rischia di investire l’intero Medio Oriente. Il fondamentalismo ebraico che “conquista” Israele. L’Unità ne discute con Renzo Guolo, studioso dell’Islam radicale e della realtà mediorientale, docente di sociologia delle culture e sociologia della politica all’Università di Padova.
Professor Guolo, come leggere lo scontro in atto tra Israele e Iran?
Questo sviluppo del conflitto è un tentativo di trovare un nuovo ordine in un’area che non regge più quei vecchi equilibri e quindi le tentazioni da tutte le parti sono quelle di ridisegnare questo ordine. Israele vede la possibilità di liquidare non solo i nemici che premono sui suoi confini e che possono essere fonti di problematiche di natura anche terroristica. La grande tentazione è quella di sistemare finalmente gli equilibri andando a toccare l’influenza dell’Iran che è considerato da Netanyahu l’unica vera minaccia strategica per lo Stato ebraico, al di là di Hamas, che può colpire duramente come si è visto il 7 ottobre. Se poi Teheran riuscisse ad arrivare al nucleare, il vero incubo d’Israele, muterebbero radicalmente tutti gli equilibri regionali.
E questo scenario cosa rischia di generare?
Il tentativo è quello di risolvere il tutto attraverso una guerra lunga, che tiene conto delle esigenze di politica interna d’Israele, il che significa almeno per Netanyahu giungere fino a novembre e vedere se Trump rientra alla Casa Bianca per essere così coperto a livello internazionale. D’altro canto, la soluzione della “causa palestinese”, che nell’ottica di Netanyahu si sostanzia nella negazione di qualsiasi possibilità ai due Stati, e nell’eliminare attraverso operazioni militari molto dure sia Hamas che la minaccia di Hezbollah, anche se dovesse realizzarsi, cosa alquanto improbabile, non risolverebbe il confronto strategico con l’Iran. È come se vedessimo oggi i veri contendenti e non i proxy in campo.
E per quanto riguarda gli altri paesi arabi?
In questi giorni si è discusso molto dell’esistenza o meno di una coalizione sunnita che voglia proseguire gli Accordi di Abramo. L’operazione c’è stata ed è di indubbio segno. È chiaro che un paese come l’Arabia Saudita, nonostante i migliori rapporti con Teheran ottenuti attraverso la mediazione cinese l’anno scorso, ha un proprio obiettivo strategico: quello di non disturbare la realizzazione del grande programma “Vision 2030”. Qualsiasi conflitto che metta in discussione questo elemento disorienta il programma fortemente voluto dall’erede al trono del Regno, Mohammad bin Salman, che ambisce a trovare un equilibrio nella regione che non sia conflittuale. Spinte molto divergenti ma che possano convergere, nella visione saudita, su un obiettivo di medio periodo di stabilizzazione.
Lei ha scritto un libro molto importante: Il fondamentalismo nazional-religioso in Israele. Questo fondamentalismo si è fatto Stato e governo?
Sì, sicuramente. In quel lavoro, allora anticipatore perché c’era ben poco sull’argomento, mettevo in evidenza come il vero nodo della democrazia israeliana, perché Israele è una democrazia, fin dagli anni ’90, in particolare dal momento della grande rottura avvenuta con l’assassinio di Rabin, era legato al come si sarebbe affrontato questo nodo. Dal 1977 in poi, il fondamentalismo israeliano, che ha due componenti, quella nazionale-religiosa e quella di derivazione kahanista, oggi interpretata dalla formazione Potere ebraico, non è più, nelle sue varie articolazioni, movimento marginale ma è diventato decisivo nel sistema politico israeliano, finendo per condizionare fortemente il quadro politico. Anche quando avevano una rappresentanza elettorale minore rispetto all’attuale, riuscivano a stabilire convergenze con l’ala più estrema del nazionalismo Likud che aveva lo stesso obiettivo, cioè impedire la nascita di uno Stato palestinese e di cercare sicurezza in confini più larghi che non sono quelli, riconosciuti internazionalmente, del ’67. I nazionalisti ritenevano di poter governare, dirigere questa convergenza, lasciando questi movimenti in pozione ancillare. In realtà queste formazioni politiche sono cresciute a un punto tale, attraverso il movimento dei coloni, che oggi risultano decisivi per la sopravvivenza della maggioranza che sostiene Netanyahu. Non sono più un elemento di folclore, minoritario, mentre le chiavi del sistema restano ampiamente in mano al Likud. Oggi se i due partiti – quello Nazional religioso e Potere ebraico – uscissero dalla coalizione, l’attuale governo cadrebbe e si andrebbe diretti ad elezioni anticipate. Questo schieramento è diventato decisivo ed è portatore di istanze che non sono negoziabili sul piano della democrazia, sul terreno dei due Stati, perché fanno della condizione del possesso dell’intera Terra d’Israele l’elemento fondativo della loro politica. Sono anche movimenti diventati partiti, che con la torsione che fanno delle loro questioni, assumono connotazioni del tutto incompatibili con una democrazia. Forze estreme sono nel sistema, in posizione centrale e condizionano fortemente le attività dei governi. Questo è un problema serissimo per Israele.
A fronte, c’è l’eterna questione palestinese che lo scontro diretto Israele-Iran sembra aver rimesso ai margini.
Questa transizione allo scontro tra Israele e Iran rischia di relegare ai margini una vicenda che in qualche modo aveva riproposto, pur in un quadro drammatico come quello delineatosi dopo il 7 ottobre e anche in base alla volontà americana, la problematica dei due Stati. Mi auguro che gli Stati Uniti, oltreché l’Europa, premano perché questa questione resti in campo e che l’apertura di un nuovo e più grande fronte, se ci fosse, non mandi in soffitta definitivamente una questione, quella palestinese, che è destinata comunque, sotto forme varie, a riproporsi. La parola passa all’unica potenza che pur di fronte ad un assai riottoso Netanyahu, è in grado di condizionare Israele, cioè gli Stati Uniti. E devono trovare il modo di farlo se credono davvero alla soluzione a due Stati, che del resto non pare avere alternative. Perché comunque vada l’operazione a Gaza, che oggi non ha neanche sul piano militare quel bilancio che Netanyahu si proponeva, la questione è sul piatto e non può essere messa sotto il tappeto, come è stato fatto negli ultimi venti anni. Anni in cui si era determinata una situazione quasi perfetta per Israele…
Vale a dire?
L’impresentabile Hamas a Gaza e l’Anp di Abu Mazen che si accontentava di fare il sindaco di Ramallah. Meglio di così, dal punto di vista della gestione, per Israele non poteva andare. Questi equilibri oggi sono saltati. Perché se anche Israele venisse a capo di Hamas a Gaza dal punto di vista militare, non ci riuscirebbe dal punto di vista politico. Hamas è già riorganizzata in Cisgiordania. Nel vuoto politico dell’Anp, senza interlocutori alla Marwan Barghouti, è chiaro che Hamas sarà l’unica organizzazione in grado di prosperare sulla campagna antisraeliana, perché beneficerà dell’essere stato l’unico movimento che in qualche modo è riuscito a riproporre l’attualità della causa palestinese. Un tragico paradosso, ma è un dato di fatto con cui fare i conti.
In questo scenario perturbato, che spazio può avere il radicalismo armato jihadista?
L’islam jihadista è oggi in una posizione non certo così forte come ai tempi di al Qaeda o dell’Isis al momento del suo potere neo-califfale. Può fare della causa palestinese e nell’alleanza occidentale che s’incarna nel sostegno a Israele, un elemento della propria propaganda. Oggi, però, non è così forte da poter essere un soggetto politico-militare in grado di mobilitare. Questo non significa che non sia in grado di condurre operazioni di natura terroristica sotto varie forme. Ha però un elemento propagandistico, la resistenza palestinese all’”entità sionista”, indubbiamente forte che può sempre funzionare da leva di reclutamento.
Professor Guolo, questo disordine globale si è già trasformato, per usare le parole di Papa Francesco, in una terza guerra mondiale a pezzi?
Indubbiamente siamo di fronte all’assenza di un ordine mondiale stabile. Il tramonto dell’era bipolare non si è tradotto affatto, come peraltro era assolutamente prevedibile, nella fine della Storia o nell’esercizio di un dominio monopolare. Non è così. Ma un nuovo ordine mondiale non può che uscire da catastrofi belliche o da convulsioni belliche. Quelli che vediamo adesso non sono ancora scontri diretti, con gli ordini o i disordini nati dalle due guerre mondiali novecentesche, ma sono effetti di trascinamento di quell’ordine bipolare che non c’è più e che non è riuscito a costruirne uno stabile. Lo stesso conflitto russo-ucraino rientra in quelle dinamiche, perché assistiamo alla rinascita di un nazionalismo panrusso che vuole recuperare, sotto forme politiche e ideologiche diverse, il suo tradizionale spazio d’influenza sia verso l’Europa orientale sia verso l’Asia centrale. C’è poi la Cina che è molto forte economicamente ma ha alcune grandi questioni aperte con gli Stati Uniti, ed è in una fase di contenimento. Ed è tutta questa sorta di tettonica a zolle imperiale che produce scossoni. Siamo in una situazione che può davvero degenerare in una sommatoria di conflitti in un quadro di alleanze variabili. Si pensi solo al caso incredibile della Turchia. Un paese che sta nella Nato che però di volta in volta appoggia questa o quella potenza o persino Hamas. Cose inconcepibili un tempo. Anche questo disordine “infra alleanze” è tipico di un ordine che non riesce a stabilirsi. Siamo in una fase di grandi scossoni perché il sottosuolo imperiale non si è assestato. I rischi sono elevatissimi anche se assistiamo ad un fenomeno nuovo…
Di cosa si tratta?
Il tentativo, che si vede anche in questi giorni sul fronte israelo-iraniano, di dire rappresaglia sì ma non troppo. Quello che definisco mettere la guerra in forma, cioè il tentativo di ammettere che possa esistere un certo livello di conflitto, anche molto esteso in varie realtà mondiali, ma che questo conflitto non si saldi mai al punto tale da diventare il fattore scatenante di un conflitto molto più grande, globale. È un gioco da apprendisti stregoni che può sfuggire di mano con esiti apocalittici.