Corporativismo e populismo

La destra di Meloni fa paura: “Rischi per la tenuta democratica”

Tutt’altro che interessati alla modernizzazione capitalistica, Giorgia e soci puntano a edificare uno Stato di padroncini, tenuti al riparo dal fisco e ingrassati dal precariato. Un modello, quello sovranista che non guarda certo a Thatcher, ma all’Argentina e all’Ungheria

Editoriali - di Michele Prospero

11 Gennaio 2024 alle 17:00

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La destra di Meloni fa paura: “Rischi per la tenuta democratica”

Con il rigore che tutti gli riconoscono, sul Corriere di ieri Angelo Panebianco riflette sullo stato attuale della democrazia italiana. Il punto di forza della sua analisi sta nella premessa che egli fa: nessun partito è davvero un’isola che opera in un vuoto assoluto, per cui a contare non è solo il calcolo strategico unilaterale.

Agendo ciascuna forza entro un “sistema di interdipendenze”, la qualità di un singolo attore è inseparabile dalla caratteristica assunta dal suo contendente principale.

Ragionando sulle aporie del piano di costruire a partire dalla fiamma tricolore “un moderno partito conservatore”, è per questo indispensabile cogliere le analoghe difficoltà che, da lustri ormai, scandiscono la ambizione di consolidare un partito della sinistra socialista.

Qui i due estremi si toccano, e la carenza progettuale-organizzativa di un polo si riversa anche nella fisionomia del suo avversario determinando spesso una emulazione al contrario.

Quando Schlein e Meloni decidono di azzuffarsi per un posto nel Parlamento europeo, al quale non andranno mai, si ha la certificazione di questo contagio al ribasso.

La politica è ridotta a comunicazione, e le sue tecniche tanto più sono efficaci quanto più non rinunciano all’inganno. Se un partito manipola, è perché l’altro consente il ricorso alla semplificazione per mancanza di una forte cultura alternativa.

Senza reticenze appare il giudizio di Panebianco sul governo nero-verde. Dinanzi al “panpenalismo” imperante, la destra non fa nulla per tracciare una riforma organica ma “inventa nuovi reati” che servono per accrescere la pervasività del controllo delle toghe.

In nome del “made in Italy” esibito come grottesca ideologia, il governo distribuisce prebende all’agricoltura e ad attività “culturali” le più fantasiose. Le politiche pubbliche, ultimo è il caso delle concessioni balneari, sfornano in continuazione leggi “ispirate al protezionismo, impregnate di cultura statalista e corporativa”.

Per questo evidente ripiegamento ostile ad ogni prospettiva di liberalizzazione, e che condanna il meccanismo economico alla stagnazione, la firma più prestigiosa del Corriere insorge smentendo anche la leggenda, raccontata in passato da altre penne di via Solferino, di una Meloni come Draghi in gonnella.

La destra al potere sarà pure liberista, ma non introduce la concorrenza dove servirebbe per smantellare situazioni di monopolio e abbattere i prezzi (le “lenzuolate” di Bersani); piuttosto, Meloni vuole il liberismo proprio nei settori dove il pubblico è la garanzia dell’universalismo dei diritti e un requisito del mantenimento di una cittadinanza sociale.

Al governo centrale e nelle regioni amministrate, la destra intende mettere in commercio i beni pubblici (la sanità, in primo luogo) per affidarli alla corsa verso il lucro (convenzioni con centri di cura, assicurazioni private). La politica economica dell’esecutivo è decisa da un influente “partito” della sanità privata, che seleziona una parte del ceto politico e i media combattenti della destra.

La maggioranza di governo, poi, sarà pure statalista, però non nel senso che sia interessata ad un recupero della funzione progettuale del pubblico, ma perché vede nella occupazione dell’amministrazione l’occasione per cementare una coalizione improduttiva e parassitaria (affievolimento dei controlli, incarichi diretti e senza gare di appalto).

La percezione del fallimento della destra, che fugge dagli imperativi della modernizzazione capitalistica, è assai nitida. La proposta suggerita da Panebianco consiste invece nella valorizzazione dei due miti fondativi della Seconda Repubblica: la concorrenza di mercato e le riforme istituzionali ed elettorali, in una direzione contraria a quella del premierato assoluto.

Per un politologo liberale il problema del rendimento delle istituzioni prevale su un tema cruciale come la ricostruzione di una soggettività del mondo del lavoro, quale condizione minima per la salute della democrazia e anche per il recupero della capacità produttiva.

La destra edifica uno Stato dei padroncini che garantisce uno scambio tra ricchezza difesa dal fisco e precarietà della forza-lavoro. Nelle pieghe di questa base produttiva molto arcaica, e però dotata di importanti beni posizionali, agiscono le forze che sventolano una ideologia corporativa e protezionista.

Il blocco sociale che alle urne premia Salvini e Meloni si sente al riparo dall’inefficienza della macchina pubblica, dal deperimento dei servizi essenziali, dall’inflazione, dall’abbandono della scuola e della ricerca.

Ciò accade perché il profitto è comunque politicamente garantito, non passando attraverso la capacità di competere in tecnologie più avanzate (il 75% degli imprenditori ha in tasca solo un diploma di scuola media inferiore) o nella espansione dei salari per alimentare la domanda interna.

Il populismo, per le due destre al comando, non è un incidente di percorso occasionale. È invece l’essenza del consenso di una fascia di società che pretende la conquista dello Stato per tenersi al sicuro dalla invadenza del “pizzo di Stato”.

Il patto sociale tra governo e micro-impresa o lavoro autonomo è fondato su un paludoso baratto tra il riconoscimento politico della variabile indipendente del profitto (che infatti cresce malgrado il declino di competitività e di produttività d’impresa) e l’autorizzazione alla contrazione dei salari, alla incertezza contributiva e normativa del lavoro, alla eutanasia del pubblico e dei beni comuni-ambientali.

Il farsi Stato è un obiettivo necessario per dare consistenza al disegno corporativo e protezionista di una destra che solletica gli appetiti scrocconi di una micro-imprenditorialità con scarsa vocazione all’innovazione e che confida in aiuti, bonus, condoni, evasione ed elusione.

Proprio qui, più ancora che in lacune riscontrabili nella forma di governo o nelle tecniche elettorali, risiedono i rischi di organici rigurgiti autoritari che tratteggiano un pendolo funesto tra suggestioni argentine (o trumpiane) e invocazioni di ancoraggio europeo sempre più gracili.

Colpisce che anche Panebianco, che pure bolla come propaganda le prese di posizione sul pericolo di una marcetta su Roma, non nasconda il timore per la “tenuta della democrazia”.

Lo collega giustamente al quadro internazionale (il ritorno di Trump avrebbe effetti devastanti per l’intero occidente) e, di riflesso, ai contraccolpi europei di un’affermazione delle destre radicali e sovraniste. Istituzioni di governo efficienti sono di sicuro imprescindibili per arginare le involuzioni autoritarie che si affacciano nelle giunture critiche.

Tuttavia l’autonomia politica della sinistra e il conflitto sociale contro la precarizzazione della forza-lavoro sono le prerogative, più urgenti ancora dei collegi uninominali, per superare le insidie di una obsoleta struttura produttiva che esprime lo Stato dei padroncini come una propria funzione.

Il populismo, il protezionismo corporativo sono le credenze di una compagine sociale che spinge il capitalismo italiano verso Buenos Aires e lo allontana dal cuore della vecchia Europa.

11 Gennaio 2024

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