L'anniversario dell'agguato
Aldo Moro non era un uomo di potere, era il potere: lo statista, l’uomo, l’intellettuale, il credente
46 anni fa l’agguato di via Fani: Le Br sterminarono la scorta e rapirono il presidente della Dc. Chi era Moro, lo statista, l’uomo? I ricordi di Andreotti, Guerzoni, Franzinelli, Antonetti
Editoriali - di Franco Vittoria
Raccontare di Aldo Moro è, senza dubbio, da un lato fonte di forte emozione e commozione essendo, pur a distanza di tanti anni, non ancora spento l’impatto emotivo della sua tragica uccisione, dall’altro necessario, per far riemergere e conoscere, specie alle nuove generazioni, non solo e non tanto la sua fine quanto il suo lungo e caparbio impegno a favore del nostro Paese, delle sue istituzioni e della sua crescita politica e sociale.
Risulta quindi fondamentale tornare a riflettere sugli anni della sua molteplice azione di professore e di statista, senza trascurare l’uomo Moro che ha saputo rappresentare negli anni della storia repubblicana un riferimento per il suo partito e per le nuove generazioni.
Dopo le macerie della Seconda Guerra mondiale, assieme a De Gasperi, la Pira, Dossetti e Fanfani, Moro ha saputo raccogliere l’eredità di Luigi Sturzo per traghettare l’Italia verso un modello di democrazia più partecipata e più equa. Si doveva realizzare la partecipazione dei cattolici alla vita pubblica.
È stato, come lo ricorda Antonetti, un uomo delle possibilità in campo politico che, nella sua esperienza si è trovato a gestire e, talora, a promuovere, svolte politiche cruciali nella storia del dopoguerra italiano, senza mai trascurare quelle correnti profonde, sia culturali che sociali ed economiche, che sostenevano o, al contrario, destabilizzavano il sistema costituzionale italiano, che egli stesso aveva contribuito a creare.
Spesso si sono avallate immagini di Moro semplificatrici e fuorvianti, quali quelle che lo dipingevano come una personalità dal pensiero e dal parlare oscuri, come un leader distaccato, calcolatore e guidato nelle sue azioni dalla sola logica del potere, o come un uomo insensibile e incapace di parlare al cuore della gente.
Sicuramente può essere considerato attendibile il giudizio che di lui ha dato Corrado Guerzoni, portavoce di Moro: ho qualche riserva su quell’eccesso di un Moro sempre sull’orlo della tristezza mortale, sempre esausto.
Non era un tipo allegro, di certo, almeno nella sfera pubblica, era molto concentrato su di sé, ma «ci faceva», nel senso che aveva assunto un atteggiamento di persona restia, sempre pronta a ritirarsi: ma era una tattica che produceva effetto su Mariano Rumor e dintorni.
Moro non era attaccato al potere: era il potere fatto persona, nella sua sacralità e indivisibilità e irrinunciabilità. (M. Franzinelli). Mite e duttile nelle modalità d’incontro, ma altresì coerente nei ragionamenti e tenace nelle convinzioni, Moro fu anche altro: un intellettuale, un giurista, un credente, un fine interprete delle tensioni e delle passioni del suo tempo, un uomo del dialogo e della ragione.
Luciano Lama, all’epoca segretario della CGIL, nel 1975 incontrò Moro per la prima volta, in occasione delle consultazioni tra governo e sindacati sulla riforma delle pensioni.
Egli ricorda che, prima di incontrarlo, fu piuttosto influenzato dai giudizi che circolavano sulla persona di Moro, giudizi non del tutto positivi, dato che lo statista pugliese «era ritenuto un uomo che si perdeva troppo spesso nell’astrattezza, nella concettuosità, una sorta di intellettuale complicato e sognatore».
Il segretario della CGIL invece, affermò di essersi trovato dinanzi ad un uomo che sapeva ascoltare e che aveva la virtù e il gusto della ricerca, un uomo carismatico che spesso indagava realtà complesse e, quindi, nonostante il suo pensiero complesso, non era certamente contorto od oscuro.
Moro non fu mai astratto e, nelle molte responsabilità politiche che assunse, egli «esplorò la direzione delle correnti profonde della società, non solo italiana, e, per quanto possibile, cercò di canalizzarle all’interno dell’evoluzione democratica del paese». (N. Antonetti).
Il futuro leader pugliese ebbe una ricca formazione giovanile, all’interno di un ambiente familiare in cui una profonda religiosità si intrecciava con una sana laicità; non dimenticò mai il precetto di Monsignor Giovanni Battista Montini, il quale affermava che bisognava mantenere sempre una «unità di vita» e, come ricorda la sua compagna di partito Tina Anselmi, «a chi lo seguiva da vicino appare evidente che non c’è mai stato un momento della sua esistenza in cui la sua dimensione di uomo non fosse intimamente legata alla sua dimensione di studioso, di uomo di cultura, e al suo impegno politico».
Nicola Antonetti ricorda ancora che, quando Moro «si convinceva della necessità di avviare percorsi nuovi e difficili per la Democrazia Cristiana, e, soprattutto per il paese, superava anche i limiti di un carattere schivo e accettava le difficili responsabilità che si presentavano».
Assumendo la carica di segretario nazionale della Democrazia Cristiana, il 16 marzo 1959, Moro disse: Non accetto con gioia, non posso accettare con gioia questa designazione.
Io ho sempre tremato di fronte a qualsiasi compito di responsabilità che mi sia stato affidato. Credo di non averli mai cercati: credo però di non averli mai rifiutati quando le circostanze potevano indicarmene il dovere.
Moro fu un uomo di partito, una delle personalità politiche più gelose della propria autonomia e della laicità, ciò che gli consentì di comprendere, sempre, le ragioni degli altri partiti e, ribaltando la situazione di crisi in cui versava la Democrazia Cristiana all’epoca della sua elezione a segretario, avviò il suo partito verso una strada nuova: il dialogo con i socialisti .
Il leader pugliese affrontò le grandi svolte del sistema politico secondo la sua prospettiva politica, quella che, tra il 1943 e il 1945, lo aveva portato a partecipare alla redazione del Codice di Camaldoli, nel quale si accoglieva la democrazia come la conquista irrinunciabile della civiltà moderna.
Egli riteneva che l’individuo fosse il protagonista di un percorso storico ed etico che lo avrebbe portato a relazionarsi con gli altri per costruire uno Stato forte, al servizio dei singoli, delle comunità, della collettività.
Durante la stagione della Costituente, il futuro leader della Dc affermò che «la certezza del diritto non si realizza, se i rapporti sociali sottostanti al diritto non sono assestati nel modo più opportuno e più giusto» , quindi era sua convinzione che, in un regime democratico, il riconoscimento e la garanzia dei diritti richiedeva la presenza di uno Stato forte e autorevole.
Egli considerò sempre come irrinunciabile il ruolo dei partiti nella democrazia rappresentativa, «ma non pensò mai a quel modello di government by discussion, sempre inutilmente vagheggiati nella cultura liberale italiana, né accettò il modello del partito-istituzione, ereditato dal fascismo e a lungo distintivo dell’organizzazione del Partito Comunista».
Nella Democrazia cristiana, si oppose alla struttura statica del partito dinanzi all’evolversi della società, ma non sembra che Moro sia riuscito nel suo intento.
Certo, Moro fu sempre riconosciuto dai suoi compagni di partito come uno tra i maggiori leader nazionali, ma, allo stesso tempo, egli fu spesso visto come l’ostacolo principale per lo sviluppo degli interessi delle varie correnti interne al partito.
Un’adesione alla sua politica emerse solo in stati d’eccezione, cioè, come ricorda Antonetti, «di fronte a quelle svolte politiche che Moro vide necessarie per il partito ed essenziali per il futuro della democrazia italiana» .
Analogamente, Guerzoni ricorda che spesso capitava che la DC, o parte di essa, si rivolgessero a Moro nel momento della difficoltà e della disperazione […] Scampato il pericolo gli volteranno le spalle, perché quello che nessuno […] può accettare è di rimettersi, per sempre, nelle sue mani, piegarsi definitivamente alla sua superiorità politica e morale .
È dunque diffusamente avvertita la necessità di tornare a rivisitare la figura di uno dei più importanti statisti della nostra storia istituzionale e politica.
Arare gli archivi alla ricerca di verità più profonde, in grado di spiegare una storia non priva di inquietudini, il singolare intrecciarsi di un destino e di una vocazione personale con le comunità con cui Moro venne in contatto: la sua regione, il mondo cattolico, gli studi, l’insegnamento, il suo partito, la politica, il Parlamento, il Paese, l’Europa, il mondo, ma anche il rapporto con i giovani, le amicizie, gli affetti