Le elezioni regionali

Intervista a Enrico Morando: “Il PD è leader, non può ridursi a facilitatore di alleanze”

«In Sardegna un bel risultato, ma è stato un errore considerarlo un cambio di fase. Nazionalizzando il voto in Abruzzo abbiamo fatto il gioco di Meloni. E comunque il vero campanello d’allarme è il Portogallo...»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

15 Marzo 2024 alle 13:05 - Ultimo agg. 18 Marzo 2024 alle 13:05

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Intervista a Enrico Morando: “Il PD è leader, non può ridursi a facilitatore di alleanze”

Il “campo largo” abruzzese non dà i frutti sperati. E ripropone nodi politici che il centrosinistra sembrava aver sciolto con il successo in Sardegna. L’Unità ne discute con Enrico Morando, leader dell’area liberal del Pd, tra i fondatori dell’associazione di cultura politica Libertà Eguale, già viceministro dell’Economia e delle Finanze nei governi Renzi e Gentiloni.

Il risultato dell’Abruzzo riporta con i piedi per terra il centrosinistra ridimensionando il risultato in Sardegna?
Il risultato delle elezioni sarde è un bel risultato, per il centrosinistra: le divisioni del nostro campo -peraltro dovute a errori nella preparazione dell’offerta politica (rifiuto aprioristico delle primarie per la scelta del candidato Presidente) -autorizzavano a pensare che non ci fossero concrete possibilità di vittoria. Si è dimostrato che la scelta di un candidato credibile per la guida del governo regionale -associata all’errore del centro-destra di nazionalizzare il confronto per non pagare il dazio di una prova di governo locale disastrosa-, poteva rendere la partita elettorale più aperta. Aperta fino al punto di consentire una vittoria. Risicata? Sì, ma vittoria. Ed è quello che conta. È stato però un errore leggervi addirittura un cambio di fase della politica nazionale: questa interpretazione non ci ha giovato in Abruzzo, dove disponevamo di un candidato altrettanto credibile di Todde, e di una coalizione più ampia. Affidando agli elettori dell’Abruzzo il compito di confermare il “cambiamento del vento nazionale “abbiamo fatto il gioco di Meloni…

Vale a dire?
Nazionalizzando un confronto che conveniva restasse quello che era: la competizione tra diverse proposte di governo regionale. Poiché non si può seriamente sostenere che il Paese sia interessato da una svolta politica nazionale al mese (tra qualche settimana avremo le elezioni in Basilicata. Candidiamo anche quelle a testimoniare di una svolta nazionale rispetto a quella dell’Abruzzo; che è stata una svolta rispetto a quella emersa dal voto sardo…; e così via, in attesa del Piemonte?), converrà prendere le elezioni regionali e locali per quelle che sono. Occasioni in cui si misurano proposte e leadership locali. Non sto sostenendo che non ci siano tendenze che emergono dal voto regionale e segnalano problemi nazionali. Sono quelle che-nel caso specifico- accomunano le elezioni sarde e quelle dell’Abruzzo. Una su tutte le altre: mentre nei capoluoghi di provincia e nei centri maggiori il centrosinistra -nei suoi diversi assetti- è comunque competitivo e spesso prevale, nei centri più piccoli il predominio del centrodestra è spesso schiacciante. Capire perché questo accade è cruciale, se vogliamo tornare a vincere. Ma non vedo in corso alcuno sforzo di analisi, da cui far derivare conseguenze di linea politico-programmatica, di leadership e di organizzazione.

Da cosa partire?
Azzardo qualche ipotesi di ricerca: non sarà che in questi centri minori -dove la mobilità pretende il possesso e l’uso di una macchina (spesso un diesel con una barca di chilometri)- si guarda con preoccupazione alla acritica adesione del centrosinistra alle impegnative (ed imminenti) scelte di superamento del motore termico, senza che sia prevista alcuna concreta compensazione per le vittime (sociali e soprattutto territoriali) di questa “opzione zero“? E ancora: poiché lo spopolamento in corso in questi centri minori sta determinando una vera e propria crisi di identità, specie quando si accompagna a -e determina- scelte di chiusura delle scuole elementari -la sede della riproduzione di base della cultura di quella comunità-, è proprio impossibile studiare una versione 4.0 delle vecchie pluriclassi, che molti di noi “di paese“ abbiamo frequentato con profitto negli anni ‘50 e ‘60? Sono due ipotesi di lavoro, magari destituite di fondamento. Mi farebbe piacere sentirne altre, più fondate delle mie.

Un dato oggettivo è l’astensionismo di massa. In Abruzzo ha votato il 52,2% degli aventi diritto, il dato peggiore di sempre. L’astensione sembra aver penalizzato il candidato del centrosinistra.
Il crescente astensionismo elettorale è un fenomeno drammatico, che rende più fragile la democrazia e penalizza tutti gli attori: ci sono stati casi nei quali l’astensionismo ci ha giovato, favorendo l’affermazione dei nostri candidati. Ma questo non lo ha reso meno preoccupante. Per questo, interesserebbe a tutti affrontarlo con soluzioni che ne aggrediscano le cause. Prima però gioverebbe un po’ di trasparenza sugli ostacoli strutturali: il primo è quello del corretto conteggio degli aventi diritto al voto e di quanti possono effettivamente esercitarlo. I milioni di italiani residenti all’estero ed iscritti all’AIRE (anagrafe degli italiani residenti all’estero), ora possono votare abbastanza agevolmente rimanendo -fisicamente- all’estero, dove risiedono. Questo però vale per le elezioni politiche, per le europee e i referendum. Per le elezioni locali il voto è concretamente esercitabile solo recandosi ai seggi allestiti nel Comune italiano di iscrizione all’AIRE. Mettere in evidenza questo dato e -almeno sugli organi di informazione- invitare a calcolare correttamente la partecipazione al voto su coloro che risiedono in Italia sarebbe un fatto di chiarezza non irrilevante (per chi pensa che il mio sia un inutile tecnicismo: gli iscritti all’AIRE in Abruzzo sono più del 5% degli aventi diritto). Venendo a scelte più di sostanza: prendendo atto che chi sa di più, vota di più, agire sulla scuola e sulla formazione (su questo si veda, di recente, il professor Cassese). E approvare finalmente una buona legge sui partiti, curandone in modo inflessibile l’applicazione: la sensazione che siano corpi estranei alla società e autoreferenziali allontana i cittadini dal voto.

Il voto in Abruzzo ridà fiato al dibattito agro-politico sui campi. Campo largo, campo giusto, campo accidentato. Non c’è il rischio che l’annosa discussione sulle alleanze cancelli o comunque metta all’angolo la ricerca da parte del Pd di una propria identità politico-culturale?
È la centralità riconosciuta alla politica delle alleanze -vista come un obiettivo in sé-, che non convince. O, meglio, che convince i cittadini che il gioco della politica non è un gioco che li riguarda. Nessuno nega l’ovvio: se si fa la somma dei voti ottenuti da coloro che si oppongono al Governo Meloni, si vede che quest’ultimo gode di un consenso elettorale largo, ma non maggioritario. Quindi, una delle condizioni che vanno realizzate è certamente quella di dare consistenza politica a questa somma matematica. La domanda da porsi è come si costruisce questa operazione che trasforma un dato numerico in un dato politico, capace di far acquisire credibilità alla proposta di governo alternativa a quella di Meloni.

Domanda più che opportuna. E la risposta?
La risposta non può limitarsi alle indicazioni di metodo: non rispondere alle provocazioni del potenziale alleato; insistere sull’appello all’unità; valorizzare ciò che unisce e mettere un po’ in sordina ciò che divide; essere sempre disponibili a dare tempo al potenziale alleato perché maturi scelte unitarie… Ammettendo per un attimo che queste scelte sul metodo siano tutte corrette, bisogna però riconoscere che quando esse finiscono per indurre a trascurare la profonda diversità delle soluzioni avanzate dai potenziali alleati sui problemi fondamentali del Paese, è la credibilità dell’alternativa di governo a risultare irrimediabilmente lesionata. Detto più chiaramente: in tempi di normale tran-tran, di ordinaria amministrazione, ci si può anche accontentare delle buone indicazioni di metodo, ma il mondo è radicalmente cambiato, è diventato molto pericoloso. Sia che si guardi all’Europa e all’esigenza di un grande salto nella sua integrazione, sia che si guardi alle minacce delle autocrazie verso le democrazie, sia che si guardi all’urgenza di nuove sedi per il governo globale, si impongono scelte che hanno rilievo strategico, destinate ad influenzare durevolmente il futuro dell’umanità. Come fai a dire che, prima di queste scelte, viene la politica delle alleanze? L’identità “politico-culturale del PD”, di cui lei parla, non si costruisce in laboratorio, partendo dalla risposta alla domanda: “con chi vuoi allearti?”. Si costruisce nel vivo della battaglia politica per rispondere a queste drammatiche urgenze. Del resto, tutte le coalizioni hanno un partito a vocazione maggioritaria che fornisce leadership e sostanza dell’agenda di governo. Vale anche per il centro-destra, diviso anche sulle scelte strategiche di cui ho parlato prima: ma nessuno pensa che la leadership e la sostanza dell’agenda non siano quelle di Fratelli d’Italia e di Meloni. Cambiato quel che c’è da cambiare, questa regola vale anche per il centrosinistra. Il PD è il naturale candidato a svolgere questa funzione. Ma deve pensarsi come tale, non come semplice facilitatore di alleanze politiche.

Che conseguenze può avere il risultato abruzzese sulle europee?
Con tutto il rispetto per il risultato abruzzese, credo che il vero campanello di allarme abbia risuonato in Portogallo. Non penso che ci sia un’alternativa alla maggioranza tra popolari, socialisti, liberaldemocratici e verdi. Ma per la prima volta potrebbe esserci un grande problema in Consiglio, dove si riuniscono i Governi. Non si costruisce l’Unione di difesa e della politica estera, l’Unione con una vera capacità fiscale in grado di finanziare la produzione di beni comuni su ambiente, digitalizzazione e politica industriale, con una Commissione resa debole da una Presidente popolare che subisce la pressione dei sovranisti e modifica per questo la sua agenda; e con una maggioranza parlamentare assediata dai partiti sovranisti e da quelli apertamente ostili all’Unione. Questa è la vera posta in gioco: per la prima volta, si vota davvero sul governo dell’Europa; non si partecipa ad un sondaggio di popolarità sul Governo nazionale.

15 Marzo 2024

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