Parla l'esponente dem
Intervista a Piero Fassino: “In Medio Oriente dobbiamo batterci per i diritti dei due popoli”
«In Medio Oriente non ci sono un torto e una ragione, ma due ragioni: per conquistare la pace vanno riconosciute entrambe. Bisogna distinguere la società israeliana dalle politiche di Netanyahu. Ora serve subito una tregua che metta in sicurezza la popolazione civile»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Dalla guerra in Medio Oriente allo scenario politico italiano dopo il voto in Sardegna. Una intervista a tutto campo quella concessa all’Unità da Piero Fassino, già segretario nazionale dei Democratici di sinistra e sindaco di Torino, attualmente presidente della Commissione Esteri della Camera dei deputati ed esponente di primo piano del Partito Democratico.
A Gaza ancora giornate drammatiche
Quale che sia stata la dinamica degli incidenti – Hamas e l’esercito israeliano danno versioni opposte – una cosa è certa: 100 morti e centinaia di feriti sono una enormità che nessuna spiegazione può giustificare. La situazione sta andando fuori controllo e degenerazioni drammatiche possono prodursi in ogni momento provocando altre vittime innocenti e altre sofferenze. A questo punto è necessaria immediatamente una tregua che fermi le armi e metta in sicurezza la popolazione civile. Una tregua subito a cui segua, al più presto, la conclusione delle trattative in corso per un accordo di cessate il fuoco consentendo la liberazione degli ostaggi e l’inoltro di tutti gli aiuti necessari alla popolazione palestinese. E su questi obiettivi occorre che la comunità internazionale, l’Europa e l’Italia premano con più decisione.
Fin dall’inizio il conflitto israelo-palestinese ha suscitato polemiche e divisioni. C’è chi parla di genocidio a Gaza e anche nel PD c’è dibattito. Una certa pubblicistica la dipinge come “filo israeliano”. Come ribatte?
Che si tratta di caricature figlie del pregiudizio. Mi occupo di Medio Oriente da più di quarant’anni con continue relazioni con i principali dirigenti palestinesi e israeliani. E ne ho tratto una convinzione: in quella terra in conflitto non sono un torto (l’esistenza di Israele) e una ragione (l’aspirazione palestinese ad una patria), ma due ragioni, entrambe legittime. E la pace richiede che si riconoscano entrambe. D’altra parte, gli Accordi di Oslo e di Washington erano fondati esattamente su quel principio. Non avervi dato realizzazione ha via via logorato la loro credibilità e favorito il riemergere, in ciascuno dei due campi, della negazione dei diritti dell’altro. Proprio perché credo nel diritto dei palestinesi ad avere una patria mi batto contro ogni demonizzazione di Israele perché la negazione del diritto di Israele a esistere è il principale ostacolo alla nascita di uno Stato palestinese.
Ma come giudica la politica di Netanyahu? Ha sempre ostacolato una soluzione.
Netanyahu ha responsabilità enormi. Quando Rabin fu assassinato Netanyahu dichiarò “con Rabin è morta anche Oslo”. Ed è stato drammaticamente conseguente, autorizzando l’estensione continua degli insediamenti di coloni in Cisgiordania, dichiarando Gerusalemme capitale indivisibile di Israele, ostacolando in ogni modo l’attività dell’Anp e impedendo ogni negoziato per una soluzione condivisa di pace. E anche oggi rifiuta la nascita di uno stato palestinese. Ma il più severo giudizio su Netanyahu non può portare a disconoscere il diritto di Israele a esistere. Perché l’identità di un Paese non coincide con le politiche del governo temporaneamente in carica. Peraltro, chi demonizza Israele spesso non ne conosce la storia. Si ignora che lo Stato di Israele non nasce da un sopruso, ma da una decisione delle Nazioni Unite con il sostegno delle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale. Si ignora che l’Onu statuì che sul mandato britannico della Palestina sorgesse, accanto ad Israele, anche uno Stato palestinese che i paesi arabi rifiutarono muovendo guerra a Israele per impedire che nascesse. Si ignora che dalla nascita e per oltre 40 anni Israele è stato guidato da una leadership progressista che realizzò con i kibbutz e i moshav un’esperienza unica di socialismo democratico autogestionario. Si ignora che gli Accordi di Oslo e Washington furono voluti e negoziati non da dei razzisti, ma da Rabin e Peres, due dirigenti di sinistra. Si ignora che in Israele non c’è solo Netanyahu e la destra religiosa integralista, ma c’è una solida società democratica che ha dato luogo nell’ultimo anno a imponenti manifestazioni contro Netanyahu e le sue politiche.
Questa crisi ha evidenziato una criticità nel rapporto di settori della sinistra e Israele.
Il rapporto tra sinistra e mondo ebraico ha conosciuto fasi diverse. Di grande consonanza nei valori di democrazia, liberazione e giustizia, ma fasi anche di distanziamento, soprattutto dopo le guerre del 1967 e 1973. Insieme a Giorgio Napolitano ho lavorato per costruire un rapporto positivo e di fiducia, culminato nel discorso di Occhetto all’Università di Tel Aviv in cui il segretario del neocostituito PDS riconobbe il valore del sionismo come movimento di riscatto sociale e nazionale del popolo ebraico. E da allora i rapporti con la società israeliana – in particolare con i partiti di sinistra – sono assolutamente buoni. Ma in Italia l’azione di settori radicali della sinistra rischia di alimentare odiosi pregiudizi, offrendo alla destra lo spazio per accreditarsi verso il mondo ebraico e far dimenticare non solo le responsabilità enormi del fascismo nella persecuzione degli ebrei, ma anche la ostilità che a lungo la destra italiana ha manifestato verso Israele.
E che cosa si deve fare per evitare questo rischio?
Intanto non dimenticare mai che la crisi di questi mesi è stata provocata dal terribile massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre e che le vittime innocenti di quel massacro hanno diritto di essere rispettate come le vittime di Gaza. E poi distinguere la società Israeliana dalle politiche di Netanyahu. Battersi perché si riconoscano i diritti di entrambi i popoli e non di uno solo. Contrastare ogni forma di antisemitismo di chi colpevolizza ogni ebreo, ovunque viva, per le scelte del governo israeliano. E a chi parla di genocidio paragonando le vittime palestinesi alla Shoah chiedo di leggere le severe parole con cui Liliana Segre ha bollato quella inaccettabile equiparazione. Voglio essere chiaro: comprendo benissimo l’angoscia di fronte alle migliaia di vittime palestinesi di una azione israeliana che gran parte della comunità internazionale e lo stesso Biden hanno considerato sproporzionata. E condivido l’urgenza di giungere a un cessate il fuoco. Ma non taciamo che se le vittime sono state un numero così alto è anche conseguenza della scelta, lucidamente spietata, di Hamas di collocare le sue strutture militari in una inestricabile commistione con scuole, ospedali, abitazioni civili, sedi di organizzazioni internazionali, trasformando Gaza e i suoi abitanti in un gigantesco scudo umano. Né possiamo ignorare che Hamas non vuole alcun accordo e predica la nascita di “un’unica Palestina dal fiume (il Giordano) al mare” cancellando l’esistenza di Israele e degli ebrei da quella terra. Se si vuole una pace sicura non si può che contrastare in chiunque predichi distruzione e odio, operando invece per riaprire la strada ad una soluzione che riconosca, realizzi e tuteli i diritti di israeliani e palestinesi. Certo, dopo il massacro del 7 ottobre e l’asprezza della guerra di Gaza, la soluzione due popoli/due Stati è un cammino più impervio. Il solco di sfiducia, rancore e odio è divenuto ancora più profondo. Ma se si vogliono davvero realizzare pace, convivenza e diritti, un’altra strada non c’è.
La guerra come cifra del presente. Dall’Ucraina al Medio Oriente: siamo già dentro quella che Papa Francesco ha definito la “terza guerra mondiale a pezzi”?
Non da oggi dico che viviamo in una condizione di “anarchia internazionale”. Il sistema multilaterale con cui si è governato il pianeta dalla caduta del muro di Berlino alla elezione di Trump, è andato in pezzi. E il primo a frantumarlo è stato Trump con la sua strategia di “America first”. Un altro colpo decisivo lo ha inferto Putin che, con l’aggressione all’Ucraina, ha annullato l’Accordo di Helsinki e spezzata la concertazione con l’Occidente. Non solo, ma nella globalizzazione sono emersi nuovi attori – dalla Cina ai Brics ai tanti paesi emergenti – che rivendicano un ruolo. E tutto questo ha messo in mora le istituzioni internazionali, a partire dall’Onu che da soggetto di governance mondiale è divenuto cassa di risonanza dei tanti conflitti che percorrono il mondo. Tutti avvertiamo l’urgenza di ricostruire un sistema di governo del pianeta, soprattutto di fronte a sfide – il cambiamento climatico, gli squilibri demografici, le migrazioni, la gestione delle materie prime, le regole degli scambi – che tutte hanno carattere globale.
Venendo all’Italia. Il voto sardo. Una parentesi positiva o l’inizio di una possibile rivincita sulle destre?
Certamente un voto non scontato. È la prima elezione da parecchi anni in cui uno schieramento progressista conquista una regione governata dalla destra. Hanno giocato molti fattori: la maggiore credibilità della Todde rispetto Truzzu (che ha avuto il suo peggior risultato a Cagliari di cui è sindaco); la imposizione da parte della Meloni di un candidato in cui i sardi non si sono riconosciuti; la defezione di una parte dell’elettorato del Partito Sardo d’Azione umiliato dalla giubilazione del suo candidato. E infine un peso lo hanno avuto anche le brutali manganellate di Pisa che hanno suscitato una reazione in molti elettori anche moderati. In ogni caso una vittoria che dimostra che la destra – pur rimanendo forte – non è però imbattibile. Non solo ha perso la Regione, ma Fratelli d’Italia dimezza i suoi voti rispetto alle elezioni politiche di un anno fa e la Lega è ridotta a percentuali insignificanti.
Dal “campo largo” al “campo giusto”: l’alleanza PD-5Stelle è la prospettiva politica dell’anno elettorale e della sfida alle destre?
Dal voto viene la conferma di una cosa nota da tempo. Presentarsi agli elettori con uno schieramento unitario è condizione ineludibile per vincere. Il PD è la forza politica che ci ha creduto di più e il voto l’ha premiato: primo partito in Sardegna e i suoi voti sono stati determinanti per la vittoria della Todde. E il voto sardo conferma anche che 5stelle gode di un consenso nazionale che non si trasferisce a livello locale. Nelle Regioni e nei Comuni è il radicamento del PD la principale leva per vincere.
Il risultato sardo rafforza la segreteria Schlein?
La Schlein ha creduto fin dal primo momento nella candidatura della Todde e nella necessità di uno schieramento unitario, perseguendolo con tenacia e non curandosi di troppe dietrologie. SI è spesa in modo generoso in campagna elettorale con una presenza continua in tutta la regione che ha motivato i militanti e mobilitato gli elettori. Il voto l’ha premiata e l’esito elettorale è anche una sua personale vittoria.