L'opera nel mirino
La follia di ripudiare il Don Giovanni in nome del Me Too
La brava scrittrice Viola Ardone attacca il celebre “catalogo” perché lascerebbe pensare a una lista di femminicidi. Ma il personaggio è ben più complesso di così: incarna la passione e la modernità
Cultura - di Filippo La Porta
La (brava) scrittrice Viola Ardone accusa Da Ponte e Mozart a proposito del Don Giovanni (in scena al San Carlo di Napoli, con regia di Martone), invitandoci a rileggere il celebre catalogo (“in Spagna son già milletré”) alla luce del #metoo: per lei è impossibile ascoltare l’aria meravigliosa di Mozart “senza che quella lista di prede erotiche risulti sinistramente simile a quella che enumera le vittime di femminicidio?”.
Strano, perché proprio il mito di don Giovanni (nelle sue innumerevoli versioni: dalla commedia dell’arte a Kierkegaard, Frisch, Gide, Brancati…), dimostra la inaudita vitalità di una civiltà, come la nostra, capace di mettere in scena sia la Ragione che i propri demoni, sia i lumi che l’ombra. Attraverso don Giovanni, una figura che nasce nel ‘600 rielaborando favole, leggende, storie del folklore, etc. l’Occidente si guarda dall’esterno e si mette a nudo. Altro che patriarcato!
Pensate che don Giovanni – definito “il più pregnante mito della modernità” (Umberto Curi) – alla fine venga punito in quanto seduttore compulsivo, conquistatore seriale? Beh, la pena capitale sarebbe un po’ sproporzionata. Piuttosto in don Giovanni si punisce l’ateo e miscredente, l’uomo empio privo di coscienza, senza Dio (irride l’aldilà) e senza legge.
Ciò è evidente nella prima versione, di Tirso di Molina, intitolata il Burlador de Sevilla (1630, dopo il successo della rappresentazione a Napoli, 5 anni prima), ovvero l’ingannatore che ride di tutto, e che soprattutto ride di quell’amore che il cristianesimo ha messo al centro del suo messaggio: un superuomo da commedia, 200 anni prima di Nietzsche, e anzi un vero e proprio Anticristo blasfemo che rifiuta qualsiasi vincolo.
Senz’altro meritevole di una fatwa, in un paese islamico. A Leporello che gli chiede di pentirsi risponde beffardo: “Quanto tempo mi dai?”(la vera questione teologica del dramma è fino a quale momento ci si può pentire). In una delle tante versioni spagnole don Giovanni si pente e va in cielo!
Quasi la prefigurazione di un eroe dell’illuminismo, e dell’avventura laica, aspetto che trova conferma nella seconda importante versione del dramma, il Don Giovanni di Molière (1665), testo maledetto, celebrazione del libertinismo filosofico, e non certo del seduttore debosciato: dove emerge una idea realistica dell’amore come guerra e conquista, nient’affatto salvifico.
Don Giovanni, nell’opera di Molière campione del libero pensiero, esprime per Curi “il modo in cui la modernità si autorappresenta”, simbolo di quel radicale immanentismo all’origine della scienza, della politica, dell’economia moderne.
Si tratta di uno dei grandi miti della civiltà occidentale – accanto a Ulisse, Edipo, Amleto, don Chisciotte e Faust – protagonista di innumerevoli versioni. Dalla Spagna e da Napoli rimbalza a Parigi diventando popolare ovunque, in teatri, fiere, corti, spettacoli di marionette…
È impenitente perché non conosce sensi di colpa, ignora la morale e anzi l’idea stessa di verità: gioca continuamente con la maschera e con l’artificio. Una figura eversiva che affascina tanto perché incarna la trasgressione allo stato puro, una alterità irriducibile a qualsiasi regola sociale.
L’Occidente, come sappiamo, ne ha combinate storicamente di tutti i colori (crociate, colonialismo, guerre di conquista, saccheggio del pianeta) però non c’è un’altra cultura capace di rappresentare con tanta forza la propria stessa ambiguità, l’ombra, il doppio della coscienza, il sonno della ragione che genera mostri.
Solo l’Occidente è capace di disvelare il proprio cuore di tenebra, di criticare se stesso, e in modo radicale. Si pensi anche al Nipote di Rameau di Diderot (1763, pubblicato postumo, e al centro di una riflessione di Hegel), dove il nipote di Rameau, un po’ genio e un po’ impostore, cortigiano e ribelle, smaschera con la propria immoralità la corruzione di una intera società. Quasi un don Giovanni rancoroso che viene dal basso.
La chiesa controriformista ovviamente enfatizzava il momento della punizione dell’ateo scellerato, precipitato tra i neri vapori dell’inferno: nel 1615, dunque ancor prima della rappresentazione napoletana, i gesuiti mettono in scena a Ingolstadt (Baviera) il dramma Storia del conte Leonzio, libertino dissoluto corrotto da quel Machiavelli che era cattivo maestro e figura del diavolo (in altre rappresentazioni il conte Leonzio finisce anche con Pulcinella).
Dissolutezza e ateismo sono due facce della stessa medaglia, ma ad essere perseguito è l’ateo che disprezza i morti e ridicolizza l’aldilà. Nel Don Giovanni di Mozart-Da Ponte sembrerebbe affermarsi la figura del bellimbusto e del seduttore (il celebre “catalogo”), eppure le imprese amorose dell’eroe nell’opera falliscono tutte (tranne quando si traveste da Leporello): più che essere un amatore è un retore dell’amore, un conquistatore impotente che compensa l’impotenza con un eccesso verbale.
Piuttosto a introdurci all’atmosfera del dramma sono i primi tenebrosi accordi in Re minore dell’ouverture che rinviano all’ingresso finale in scena del Commendator. Mozart intervenne sul libretto stesso di Da Ponte (che aveva eliminato ogni asperità del mito), eliminando varie scene tra cui quella di un improbabile happy end.
La sua genialità consiste nell’aver messo dentro l’opera sia la tragedia che l’energia del desiderio, sia il peccato che la spinta vitale: perciò ci dà piacere e insieme angoscia, come ogni opera d’arte. Oggi il dongiovannismo si traduce nel narcisismo sociale e nel disimpegno emotivo diffuso: il collezionismo (neutro) si sostituisce all’esperienza (che comporta sempre rischi), si consuma il sesso come si consuma indifferentemente tutto il resto, in coerenza con una idea dominante – e perversa – di libertà come libertà da qualsiasi vincolo: il superuomo è diventato il consumatore globale, che illudendosi di sedurre compra il piacere, l’avventura, la conquista, l’anima, qualsiasi cosa.
L’ateismo beffardo del libertino è l’ateismo di massa di una cultura conformista, priva del senso del limite: come aveva profetizzato Pasolini i consumi hanno desacralizzato la realtà. Non ci si ferma più davanti a niente: l’unico imperativo della modernità immanentistica è l’appagamento dei propri desideri (il poeta settecentesco William Blake: “sarebbe meglio per te uccidere un bambino nella culla che cullare desideri inattuati”, poi D’Annunzio lo confermò con Il piacere). Don Giovanni ha vinto, ma non è più una figura eversiva: anzi è la norma.
Infine. La rappresentazione più veridica di don Giovanni è in una poesia di Baudelaire, “Don Juan agli inferi”. Una figura congelata, che all’inferno guarda imperturbabile la scia della barca di Caronte, restando immobile: “sta fermo, nella sua tragica serietà”.
Don Giovanni è svelato come il prototipo del borghese, quintessenza di una vita “ridotta alla conservazione e al culto di sé”, una continua difesa preventiva (dall’altro, dalla donna) che “nasce dalla paura di essere catturato dall’altro”. Condannato a sedurre l’altro per non esserne sedotto. Una identità blindata, a proteggere l’individuo, inteso come pieno possesso di sé.