La morte del dissidente
Alexei Navalny, chi era l’oppositore di Putin che Pasolini avrebbe amato
Ipernazionalista, anti-immigrati, sembrava fatto apposta per non piacerci. Eppure nella sua battaglia per i diritti e la democrazia, è stato, come i Kennedy, un paladino di retroguardia
Esteri - di Filippo La Porta
Per capire la qualità contradditoria della grandezza di Aleksej Navalny – una grandezza peraltro assoluta – , ci occorre Pasolini, e in parte anche Lermontov: un “eroe della retroguardia” (come Kennedy a suo tempo) e un “eroe del nostro tempo” (dove la confusione è prima di tutto nelle cose, negli eventi).
Diciamolo: Navalny aveva tutto per non piacerci! Ipernazionalista benché non propriamente xenofobo, oscillante in merito all’invasione della Georgia, ferocemente avverso all’immigrazione. In un’occasione ha voluto testimoniare in difesa di un leader neonazista arrestato (tutte notizie che ho appreso in Rete, incrociando le fonti). Ma tutto ciò ora conta pochissimo.
Mi ha fatto pensare, con una associazione ardita ma spero non del tutto abusiva, ai Kennedy. Quei Kennedy ritenuti nel ‘68 dai “compagni” del Movimento semplici varianti di un sistema fondamentalmente marcio, anime belle che non costituivano nessuna vera alternativa, ai quali Pasolini – sempre un po’ eretico – volle dedicare dei versi in Trasumanar e organizzar (1971).
Li ripropongo qui: “Anime belle del cazzo, per cos’altro moriranno / i due fratelli Kennedy, se non per un’istituzione? / E per cos’altro, se non per / un’istituzione, / moriranno tanti piccoli, sublimi Vietcong?/ Poiché le istituzioni sono commoventi: e gli uomini / in altro che in esse non sanno riconoscersi. / Sono esse che li rendono umilmente fratelli. / C’è qualcosa di così misterioso nelle istituzioni / – unica forma di vita e semplice modello per l’umanità che / il mistero di un singolo, in confronto, è nulla”.
Un’altra poesia era espressamente dedicata a Bob Kennedy: pubblicata per la prima volta in Paese sera, 1 luglio 1969, con il titolo “Per un Viet onorario” e dopo varie stesure apparsa in Trasumanar e organizzar (1971) con il titolo “Egli o tu”: “Perché sia chiaro che – se tu duro eroe vivo, / sei stato da morto l’eroe del meno peggio / (…) / hai significato che solo per questo poco si muore”.
In una conversazione del ’71 con Davide Lajolo Pasolini cerca di spiegare il suo contraddittorio, paradossale rapporto con le istituzioni, fatto – come specifica – di “amore poeticamente reazionario” (amore disperato cioè verso qualcosa che ci è stato interdetto, da cui siamo stati esclusi) e “odio progressista” (odio per tutto ciò che in esse è conservazione, burocrazia, potere).
Qui sembra che lo scrittore esprima il suo amore per le istituzioni non in quanto luogo della fraternità o della giustizia (poiché in realtà sono piene “di odi e ingiustizie”) ma come metafora e promessa di fraternità.
In una risposta della rubrica che teneva sul Tempo settimanale – “Il caos” – aveva scritto: “Il sistema si dichiara democratico ma lo è falsamente”. Pasolini insomma prendeva sempre molto sul serio le solenni dichiarazioni che la democrazia fa su di sé, le “promesse” della modernità illuministica e del progresso, benché consapevole che nella pratica vengono disattese.
Potremmo osservare che, contro qualsiasi retorica della sovversione violenta e contro qualsiasi disprezzo per le istituzioni (considerate sempre “borghesi”), Pasolini ci invita a distinguere sempre tra Occidente dei valori, che nasce da quella promessa, ed è obbligato a tenervi fede – e “Occidente reale”, cioè realmente operante, che troppo spesso ne è una negazione.
Definiva Bob Kennedy “eroe della retroguardia”. Che significa? Certo lontano dalle più radicali lotte politiche di quegli anni – che avevano come obiettivo nientemeno che la Rivoluzione – umilmente impegnato a difendere la promessa di democrazia all’origine del suo paese.
Privo di coscienza di classe, refrattario a qualsiasi sol dell’avvenire, e anzi compromesso nel passato perfino con il maccartismo, però in quel momento storico un eroe necessario della retroguardia, un coraggioso paladino dei diritti civili, che ogni volta sono rimessi in discussione (la democrazia è un work in progress, un progetto sempre incompiuto e aperto) Navalny non somiglia per niente a Pecorin, al protagonista di Un eroe del nostro tempo di Lermontov, a quell’ufficiale brillante della Russia post-decabrista, individualità inquieta e oscura.
Prima appassionato e poi disilluso, inaridito, cinico fino all’autodistruzione: “Ero pronto ad amare tutto il mondo, ma nessuno mi ha capito: ho imparato a odiare… Dicevo la verità e non mi credevano: ho cominciato a ingannare…”.
Qui infatti ci troviamo in pieno clima romantico, con Pecorin che anticipa certi personaggi demoniaci di Dostoevskij o i dandy di Oscar Wilde. Navalny non ha mai smarrito le proprie ragioni di vita, né ha mai subito la tentazione di quella “noia” esistenziale che ha segnato l’intero Ottocento.
Però il titolo di Lermontov ci fa pensare a Navalny: eroe tipico del nostro tempo – un tempo confuso, post-ideologico – , con le sue contraddizioni e con la biografia politica accidentata. Ma anche con il suo estremismo, tipicamente russo, nel denunciare ipocrisia e corruzione. Ha sempre combattuto, “eroicamente” (tentativo di avvelenamento, gravi ustioni all’occhio destro, detenzione dura), contro le bugie di stato, i brogli elettorali, i colpi di stato mascherati. In nome di una promessa di democrazia: “per questo poco si muore”.