La svolta al Consiglio Europeo
Perché e quando i rider diventano lavoratori dipendenti
L’Unione calcola che sono ormai 29 milioni le persone impiegate nei servizi a domicilio: quante ne conta l’industria manifatturiera. E finalmente ci si accorge dei molti abusi delle piattaforme e dell’algoritmo
Editoriali - di Cesare Damiano
Il 12 e 13 giugno si è riunito a Lussemburgo il Consiglio dell’Unione Europea dei ministri del Lavoro e delle Politiche sociali, presente per l’Italia il ministro Marina Calderone. Il Consiglio si è riunito sotto la Presidenza di turno svedese, affidata a Paulina Brandberg, ministro per l’Eguaglianza di Genere e la Vita Lavorativa, e ha trattato numerosi temi. Tra questi, la condizione dei lavoratori della Gig Economy.
Ma di cosa si parla quando si discute di questo argomento? Nel tentativo di dare una risposta a questa domanda, il Consiglio, in un proprio materiale informativo, così definisce questi lavoratori: “le persone che lavorano attraverso piattaforme digitali e che svolgono attività per i clienti in cambio di denaro. Le piattaforme digitali li incrociano tra loro e organizzano il lavoro”. La mediazione è svolta da un algoritmo.
Prima di approfondire l’argomento “lavoro”, cerchiamo di comprendere la dimensione di questa platea di manodopera.
L’Unione calcola che, nel 2022, essa fosse costituita da oltre 28 milioni di persone, molto vicina a quella dell’industria manifatturiera che ammonta a 29 milioni di attivi. Una coorte destinata a crescere esponenzialmente per raggiungere i 43 milioni di operatori nel 2025. Il “profilo tipico” è composto da giovani maschi dotati, perlopiù, di diploma della scuola secondaria, l’attività dei quali presso una piattaforma rappresenta una fonte secondaria di reddito che si somma a un altro lavoro regolare.
Il reddito proveniente dal lavoro per piattaforme digitali è così suddiviso: 39% taxi; 24% consegne di cibo, traslochi, trasporti e spesa a domicilio; 19% servizi domestici; 7% servizi professionali come la contabilità; 6% attività freelance di graphic design e photo editing; 3% assistenza a domicilio all’infanzia e per la salute; 2% altri “micro compiti”. Una varietà di funzioni, perciò, ben più ampia di quanto si possa immaginare di primo acchito.
Tutti i servizi, spiega l’Unione, vengono forniti tramite piattaforme basate sulla geo-localizzazione, ad eccezione di quelli freelance e dei “micro compiti”, che vengono eseguiti tramite piattaforme online basate sul web. “La maggior parte di tali lavoratori è troppo qualificata per il lavoro che svolge. Il 70% dei servizi offerti tramite piattaforme di lavoro digitali richiede competenze basse, il 20% competenze medio-basse e medie, il 6% competenze elevate e il 4% una combinazione di tutte le competenze. La maggior parte dei servizi (83%) è fornita a singoli clienti. Il resto (17%), viene fornito alle imprese o a una combinazione di privati e imprese.”
Sempre secondo i dati diffusi dal Consiglio, il fatturato del settore delle piattaforme ammontava nel 2016 a 3,4 miliardi di euro. Nel 2020 ha raggiunto i 14 miliardi. Ovviamente, i periodi di lockdown dovuti alla pandemia hanno fatto lievitare l’attività del settore. Interessante anche la distribuzione geografica dell’attività delle piattaforme. Nel 2022, le oltre 500 piattaforme di lavoro erano distribuite in questo modo: 12% in Nord America; 77% nell’Unione Europea; 8% nel resto d’Europa; 2% in Asia; 1% in Oceania. Siamo, dunque, di fronte a un settore economico in velocissima e intensa crescita. Il lavoro per le piattaforme digitali è, perciò, una questione più che rilevante.
Quale orientamento, dunque, hanno assunto i ministri nel Consiglio del 12 giugno? In primo luogo, spiega la sintesi pubblicata sul loro sito, “i ministri hanno concordato l’orientamento generale del Consiglio per una proposta di direttiva volta a migliorare le condizioni di lavoro per i lavoratori su piattaforma” . A questo scopo, l’indirizzo è quello di avviare un negoziato con il Parlamento europeo al fine di emanare una direttiva sull’argomento. La direttiva perseguirà due obiettivi principali. Primo: determinare il corretto status occupazionale delle persone che lavorano per le piattaforme digitali. In merito, si riconosce che alcune di esse sono erroneamente classificate come lavoratori autonomi. Dovrebbero, invece, aver accesso ai diritti del lavoro dipendente definiti dalla legislazione dell’Unione.
Secondo: la direttiva punterà ad aumentare la trasparenza dell’uso degli algoritmi da parte delle piattaforme digitali, garantendo la supervisione umana sulle decisioni chiave che interessano i lavoratori e la protezione dei loro dati personali. In base all’approccio del Consiglio, i lavoratori delle piattaforme che ricadono in almeno tre di sette criteri (definiti nella Proposta per una Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro su piattaforma, del 7 giugno), saranno legalmente considerati dipendenti.
Tali criteri sono: la piattaforma di lavoro digitale determina limiti massimi per il livello di remunerazione; la piattaforma richiede che la persona che svolge il lavoro rispetti regole specifiche per quanto riguarda l’aspetto, la condotta nei confronti del destinatario del servizio o l’esecuzione del lavoro; la piattaforma controlla l’esecuzione del lavoro anche per via elettronica; la piattaforma limita la libertà, anche imponendo sanzioni, di organizzare il proprio lavoro, limitando la discrezionalità di scegliere il proprio orario o i periodi di assenza; la piattaforma limita la libertà, anche attraverso sanzioni, di organizzare il proprio lavoro limitando la discrezionalità di accettare o rifiutare incarichi; la piattaforma limita la libertà, anche con sanzioni, di organizzare il proprio lavoro limitando la discrezionalità di ricorrere a subappaltatori o sostituti; la piattaforma limita la possibilità di creare una base di clienti o di eseguire lavori per terzi.
“Nei casi in cui – spiega il Consiglio – si applichi questa presunzione legale, spetterà alla piattaforma digitale dimostrare che non esiste alcun rapporto di lavoro secondo la legislazione e la prassi nazionale”. Quindi, dopo questo passo compiuto il 12 giugno, si dovrà, per il futuro, seguire lo sviluppo del lavoro che sarà avviato da Consiglio, Commissione e Parlamento europei per arrivare a una legislazione riguardante i rapporti di lavoro e la trasparenza degli algoritmi nell’ambito delle piattaforme digitali. Questo nuovo argomento ci segnala gli ulteriori e profondi mutamenti in corso nel mondo del lavoro.
A chi, come me, si è formato alla scuola sindacale dei metalmeccanici negli anni 70 alla Fiat Mirafiori di Torino, tornano in mente le battaglie contro l’organizzazione del lavoro Ford-Taylorista basata sul ritmo, sempre più accelerato, della catena di montaggio. Oggi, il “ritmo” è stato sostituito dall’”algoritmo”. Il capo squadra dal computer. Si avvera la predizione del film visionario di Stanley Kubrick, 2001: Odissea nello spazio. Era il 1968. Oggi siamo entrati nelle nuove frontiere inesplorate delle piattaforme e dell’intelligenza artificiale e, giustamente, l’Unione Europea si pone il tema della loro regolamentazione. Va segnalato il fatto che, in Italia, alcuni tribunali hanno emesso sentenze sul lavoro dei riders.
Ultima, quella del tribunale di Milano del 20 aprile del 2022, sulla quale ci troviamo assolutamente d’accordo, che ha sostenuto la natura subordinata del lavoro“ avente ad oggetto servizi quali il prelievo da parte del rider presso ristoranti o altri partner di cibo preparato o bevande, proposte al rider per mezzo di una applicazione, e della consegna di tali ordini per mezzo di bicicletta ai clienti…”. Un passo avanti rispetto alla sentenza della Corte di Appello di Torino che aveva inquadrato tale attività in un tertium genus intermedio tra autonomia e subordinazione.