Lo scoop della "lobby nera"
“Lobby nera” archiviata dalla Procura, l’inganno del trojan in un Paese di millantatori
Il caso aveva suscitato grande clamore, riguardava presunti fondi per la campagna elettorale di FdI per le amministrative milanesi 2021: Intercettazioni, telecamere, microfoni devono fare i conti con bugiardi e anche illusi che abitano il sottobosco della politica
Giustizia - di Alberto Cisterna
È stato archiviato il caso della presunta “lobby nera”, partito dall’indagine giornalistica di Fanpage, grazie a un cronista “infiltrato”, e che aveva riguardato presunti fondi per la campagna elettorale di Fratelli d’Italia per le amministrative milanesi dell’ottobre 2021.
Un’inchiesta a suo tempo clamorosa, ampiamente ripresa dai media e che denunciava gravi reati dal finanziamento illecito al partito al riciclaggio. La Procura e il Gip di Milano hanno chiuso l’inchiesta negando qualsivoglia reato e chiudendo la partita. Il caso merita una riflessione su almeno tre distinte traiettorie.
Il primo riguarda il giornalismo d’inchiesta, quello che non si limita a ricicciare le informative di polizie o le misure cautelari e che vorrebbe ancora affidarsi al “copia e incolla” senza prendersi la responsabilità di assumere una posizione sui fatti.
Scorciatoia comoda, che evita le querele, ma che ha risolto tante volte la cronaca giudiziaria nella mera cassa di risonanza degli inquirenti. I giornalisti di Fanpage, per fortuna, sono di un’altra pasta; si impegnano in prima persona, rischiano, fanno un mestiere di cui si sono perse le tracce, soprattutto rispetto ai sedicenti guru della cronaca giudiziaria nazionale, troppe volte, solo ammanicati con il Sistema e strumento di faide e imboscate (Palamara docet). L’archiviazione giudiziaria non li tocca ed è ingiusto trasferire su quella testata il peso di un preteso fallimento che, professionalmente parlando, non sembra sussistere.
Il secondo profilo riguarda il fatto che le persone colte dalle immagini dell’infiltrato giornalista nei loro dialoghi truculenti e truci, spesso mentivano e millantavano. Si ingannavano l’un l’altro, nel mestiere antico del millantatore di cui la politica pullula in tutte le latitudini.
D’altronde se quasi tutti sono d’accordo in Parlamento nel mettere mano al reato di traffico di influenze per limitarne la portata ai soli casi in cui l’interferenza con i pubblici ufficiali sia reale e non solo fittizia o vantata, una ragione ci deve pur essere. E questa riposa nella circostanza che, troppe volte, il mondo della politica e dell’amministrazione pullula di bugiardi, di millantatori, di raggiratori, di vanesi e anche di illusi.
Un acquitrino maleodorante in cui tutti dicono di conoscere tutti, tutti si dicono amici di tutti, tutti promettono di saper risolvere problemi. Tanti aspiranti mister Wolf che ammorbano di chiacchiere la vita politica e amministrativa del paese.
Sia chiaro sono, poi, quelli che spesso finiscono nelle maglie delle intercettazioni, vedono le manette ai polsi, passano qualche tempo in carcere e poi finiscono assolti. La carcerazione è stata certo ingiusta, ma se la scemenza fosse un reato le carceri sarebbero stracolme all’inverosimile in Italia.
Il terzo rilievo si collega al precedente, ma esige un preambolo. Anni e anni or sono, in un porto del sud Italia fu sequestrata oltre una tonnellata di cocaina purissima dalle forze di polizia. Una montagna di droga e un fiume di denaro andati persi per sempre.
Dalla Francia un complice delle famiglie egemoni nel porto, servendosi di utenze che riteneva sicurissime, chiamò il capo dell’organizzazione in Italia mostrandosi dispiaciuto per la “botta” subita e per il carico andato perduto. Il suo interlocutore mafioso si mostrò tranquillo, rispose che non era successo nulla di grave, che per loro non era un problema rifarsi alla prima occasione utile.
A occhio e croce una condanna a 30 anni di reclusione non poteva evitargliela nessuno vista l’entità del sequestro. Il pubblico ministero già pregustava il tintinnio delle manette e della chiave della cella gettata via per qualche decennio.
La polizia giudiziaria portò la trascrizione dell’intercettazione e allo scalpitante pm disse tranquillamente: «il boss tra mentendo, la droga non è roba loro, era solo in transito, ma non voleva fare una brutta figura con il complice francese e se l’è intestata». Come in un famoso film, a parti rovesciate, questa volta era il mafioso «tutto chiacchiere e distintivo». Mentiva e l’informativa venne, ovviamente, archiviata.
Conclusione minima. Intercettazioni, telecamere, microfoni, trojan devono fare i conti con una realtà sociale, antropologica, con un’umanità che non ha certo più i tratti dipinti circa 40 anni or sono da Tommaso Buscetta.
Non è assolutamente vero – e non lo era neppure allora – che due uomini d’onore nel parlare tra loro non possono mentire. Figurarsi nel mondo reale, nel sottobosco degli inciuci, nella melma degli intrallazzi e nella fanghiglia dei sotterfugi per uno strapuntino di potere o di denaro.
Le indagini, anche quelle giornalistiche più serie, rischiano di impattare e di franare sotto il peso di parole vuote, di esagerazioni, di millanterie, di inganni che coinvolgono certe porzioni della società e delle istituzioni.
Separare le cose vere dalle false è un’operazione complessa, che richiede mezzi, pazienza e, soprattutto, un’onesta e integra professionalità. Se quei poliziotti avessero taciuto a quel pubblico ministero ciò che avevano accertato, un bugiardo sarebbe finito in carcere per decenni, molti articoli di giornale sarebbero stati scritti e un’ingiustizia si sarebbe consumata alle spalle di un imbecille anche se mafioso.