Scandalo dossier-superprocura
Cosa è il trojan e perché siamo prigionieri dello spionaggio
Giustizia - di Alberto Cisterna
L’affaire Crosetto comincia ad assumere contorni meno imprecisi. Un dato, seppure in filigrana e mai esplicitato con chiarezza, appare evidente: le notizie pubblicate sulla stampa nelle fasi cruciali della formazione del governo Meloni provengono da una consultazione della banca dati a disposizione della Procura nazionale antimafia. Altro, al momento, non si può dire. L’asserito responsabile della consultazione offre elementi per sostenere di avere agito del tutto legittimamente, ossia in presenza di un complesso di informazioni finanziarie che meritavano una verifica su l’esponente politico. Cosa diversa sarà, poi, stabilire chi avesse i canali di comunicazione e abbia potuto, così, transitare a qualche giornalista i dati che poi sono stati pubblicati con ampio risalto e hanno suscitato la giusta reazione di Crosetto.
La vicenda, per l’importanza delle istituzioni coinvolte e per l’ampiezza dei fatti oggetto di indagine a Perugia, non può essere certo archiviata come una delle tante trasgressioni consumate in Italia in pieno accordo tra pubblici ministeri infedeli, polizia giudiziaria compiacente e giornalisti addetti alle salmerie. Di questo ha detto molto (e non tutto) “Il Sistema” e altro certamente verrà fuori su quel capitolo buio della vita della magistratura italiana. Questa volta la dimensione qualitativa della violazione contestata e quella, per così dire, quantitativa si coniugano squadernando un profilo che finora era rimasto in ombra. Sono passati due decenni da quando David Lyon («La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana», Feltrinelli, 2002) prefigurava con straordinaria lucidità la costruzione di una gabbia elettronica che avrebbe imprigionato dalla culla alla tomba la vita dei cittadini e questo paradossalmente si è verificato non in paesi soggetti a regimi autoritari o di polizia, ma presso le più importanti democrazie del mondo. La leadership mondiale dell’Occidente nel settore delle comunicazioni e dell’informatica ha, come noto, costruito giganti industriali che possiedono quantità inimmaginabili di informazioni e dati personali di cui le pubbliche autorità possono disporre praticamente in modo illimitato. Se dovessimo misurare la libertà di ciascuno secondo il coefficiente di sorveglianza elettronica e il suo impatto concreto ci si dovrebbe rendere conto di quanto più alto sia il rischio del controllo in qualunque paese occidentale piuttosto che in un regime illiberale asiatico o africano.
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È chiaro che istituzioni come il Garante per la privacy rischiano di essere travolte dall’ampiezza della “manovra digitale” che è in corso e dalle prospettive dell’IA, con l’orizzonte futuro di un capillare, microscopico controllo della vita dei cittadini. Per comprendere quanto inevitabile sia la tentazione degli apparati investigativi e di intelligence di approvvigionarsi di queste informazioni e di questi dati per alimentare le proprie attività di repressione e di prevenzione, sarebbe sufficiente considerare quanto è avvenuto negli ultimi due decenni con le comunicazioni via cellulare, con i tabulati e, infine, con i trojan e altro di ben più penetrante sembra prossimo a venire. La società della comunicazione è, per definizione, anche la società dell’intercettazione; il binomio è inscindibile. A ogni atto comunicativo (anche interpersonale, si pensi ai microfoni direzionali) corrisponde la possibilità di una captazione.
Ecco, probabilmente, il nocciolo duro delle questioni che si agitano intorno al presunto dossieraggio che avrebbe visto coinvolto personale della Procura nazionale. Le informazioni, i dati, i report, le segnalazioni sono indispensabili e irrinunciabili in una strategia moderna di contrasto alle mafie e al riciclaggio. Così come è indispensabile che l’attività di monitoraggio e di prevenzione si svolga senza trame e tracce prefissate. Il buon investigatore segue il proprio istinto, collega, verifica, ipotizza, controlla di nuovo, immagina, sospetta se del caso. È vero quanto è stato sostenuto in questi giorni ossia che così si è creata
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ovvero di cittadini la cui vita è scrutinata a fondo senza una notizia di reato, senza una garanzia processuale, senza una regola precisa. Una gigantesca rete a strascico informatica e telematica che affonda nelle acque, più o meno torbide, della società e setaccia alla ricerca di elementi da approfondire e, se del caso, affidare alle vere e proprie indagini. È un prezzo enorme, ma che poco o nulla ha a che vedere con una arcigna bulimia indagatoria o, peggio, con propositi ricattatori. È la deriva incontrollata della modernità tecnologica che ha accresciuto a dismisura la gabbia elettronica in cui ciascuno è stato incasellato ed è inevitabile che le inquisizioni vogliano attingervi a piene mani. Molti anni or sono, in un’altra era ormai, Michel Foucault scriveva il suo celeberrimo «Sorvegliare e punire. Nascita della prigione» (1975); oggi – il circuito malato delle deviazioni tra apparati di investigazione e stampa – imporrebbe forse una minuscola correzione in quel titolo di così straordinaria efficacia e potenza evocativa: «sorvegliare è punire» grazie al linciaggio mediatico praticato dalle nuove dittature del terzo millennio.