La discesa in campo del Cav

Così Silvio Berlusconi ha cambiato l’Italia

Quando lo videro in video, a reclamare il voto per sé e non per il suo partito, a sinistra lo considerarono un uomo bizzarro. Invece vinse e di brutto. E modellò la nuova era leaderistica

Editoriali - di David Romoli

27 Gennaio 2024 alle 17:30

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Così Silvio Berlusconi ha cambiato l’Italia

Lo avevano sentito arrivare tutti: quel pronunciamento a favore di Gianfranco Fini e contro Francesco Rutelli nelle elezioni per il sindaco di Roma del dicembre 1993 non lasciavano dubbi sulle intenzioni di Silvio Berlusconi. Neppure si può dire che la minaccia non fosse stata considerata: il Pds intavolò con Finivest serrate trattative offrendo garanzie sulla sorte dell’azienda in cambio della non “discesa in campo” del Cavaliere.

Berlusconi non si fidò. Ma l’irruzione del nuovo arrivato non fu valutata nella sua reale portata da nessuno. Mino Martinazzoli, leader del Partito popolare, ex Dc, rifiutò ogni alleanza con il Pds. Quell’alleanza, del resto, il segretario del Pds Achille Occhetto, l’uomo della “svolta” e dell’addio al Pci, non la cercò. Era convinto che la sua “gioiosa macchina da guerra”, l’alleanza fra tutte le forze “progressiste” bastasse da sola. Il 27 marzo 1994 le urne si incaricarono di dimostrare di quanto si sbagliasse.

Non erano di primo pelo i due leader. Avevano alle spalle una lunga esperienza. Conoscevano a menadito i codici della politica della loro epoca. Non avevano capito che con Berlusconi quei codici non servivano più a niente.

Quando il 26 gennaio 1994 le tv mandarono in onda il video fatto pervenire da Arcore, quello in cui Berlusconi, ripreso dalla telecamera coperta da una calza di nylon, annunciava la “discesa in campo”, tirarono anzi un sospiro di sollievo. Non era una cosa seria.

Dove mai si era visto un leader che si candida con un video, rivolgendosi direttamente agli italiani a nome suo e non di un partito? Che senso aveva questo testimonial di lusso che cercava di smerciare un prodotto ancora inesistente offrendo come garanzia solo la propria immagine e la biografia di imprenditore?

Un “plasticone”, come fu definito subito, alla guida di un partito di plastica, senza alcun radicamento, costretto a sguinzagliare i suoi pubblicitari per riempire le liste, pronto ad arruolare chiunque desse lustro con il piglio del presidente del Milan, non di quello del leader di una forza politica.

Trent’anni dopo è facile liquidare come superficiali e ciechi quello sprezzo, quella sottovalutazione, quell’aria di sufficienza. La campagna di arruolamenti portò in forza al partito azzurro una quantità di intellettuali che oggi nessun partito può vantare.

La comunicazione nell’etere dimostrò di non aver bisogno di radici affondate nel territorio. Berlusconi sembrava una bizzaria risibile, si è rivelato un pioniere e non solo in Italia. Oggi non c’è partito italiano che non sia più o meno modellato sulla Forza Italia berlusconiana, non c’è forza politica che non si identifichi col suo leader il quale smercia la propria immagine.

Ma non è un’anomalia italiana. Trump e Macron, Lula non meno di Bolsonaro, Orbàn e e Wilders sono politicamente “figli” di Berlusconi non meno di Renzi, Salvini, Meloni o della stessa Schlein. Va da sé che Berlusconi e il berlusconismo erano indice di una tendenza storica. Il Cavaliere era sintomo e conseguenza, non artefice, del declino dei partiti politici novecenteschi.

L’Italia, non per la prima volta, si presentava come avanguardia di un flusso politico destinato a emergere poi un po’ ovunque. Ma resta il fatto che il primo a inaugurare e impersonare quella stagione, almeno nei Paesi occidentali più sviluppati, è stato il Cavaliere.

Tra i paradossi di Silvio Berlusconi c’è quello di aver avuto allo stesso tempo una legione multinazionale di eredi ma anche nessun vero erede. Della successione nella sua lunga parabola politica non si è mai occupato davvero, forse perché avrebbe implicato ammettere di essere mortale. Faccenda della quale il Cavaliere non era affatto convinto.

Oggi Giorgia Meloni ha in pugno una leadership quasi altrettanto salda della destra, ma ciò non basta a indicarla come “vera erede politica” di Berlusconi. Il fondatore di Forza Italia era anche un abilissimo leader di coalizione: la presidente di FdI resta sempre il capo del proprio partito, e ciò rischia prima o poi di metterla nei guai.

Il Cavaliere non era impastoiato dalla fedeltà alla storia e ai militanti di un partito che prima di lui non esisteva e senza di lui non sarebbe mai esistito. Meloni, che invece ha mantenuto con l’area politica dalla quale proviene una rapporto anche sentimentale fortissimo, è continuamente impastoiata e frenata da quel passato e dai suoi spesso inetti coprotagonisti.

Ma soprattutto, nel bene e nel male, Berlusconi era segnato, caso invece da questo punto di vista unico, dalla necessità prioritaria di difendere le proprie aziende, il che spesso implicava difendere anche gli interessi dell’Italia perché in caso contrario a risentirne sarebbe stata anche la sacra e intoccabile azienda.

Meloni, come praticamente tutti gli altri emuli di Berlusconi, non ha questo vincolo. Per molti versi è un bene, dal momento che quel doppio ruolo ha contribuito non poco a inquinare la politica italiana. Però non per tutti.

27 Gennaio 2024

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