La morte del leader FI

Chi era veramente Silvio Berlusconi, il piazzista che ha fatto la rivoluzione

Il kit del propagandista e l’inno-jingle del partito di plastica sarebbero serviti a poco senza l’abilità di smerciare qualsiasi cosa senza lasciarti il tempo di capire perché stai aprendo il portafogli

Editoriali - di David Romoli

13 Giugno 2023 alle 11:30

Condividi l'articolo

Chi era veramente Silvio Berlusconi, il piazzista che ha fatto la rivoluzione

Lo stupore con cui ieri è stata accolta la notizia rende ragione di quanto Silvio Berlusconi abbia inciso, nel bene e nel male, nel dna di questo Paese. Era un uomo anziano e molto malato, la sua scomparsa era prevedibile eppure ha spiazzato tutti perché Berlusconi ha segnato tanto profondamente un’epoca da rendere difficile immaginare che non ci sia più. Chi lo ha amato lo ha amato molto, chi lo ha odiato continua a detestarlo anche da morto, basta fare un salto sui social per rendersene conto. Capita a quelle figure che gli anglosassoni definiscono larger than life.

Quando il 26 gennaio 1994 tutte le televisioni diffusero il videomessaggio che aveva registrato a Macherio, “L’Italia è il Paese che amo…”, pochissimi capirono di trovarsi di fronte a una rivoluzione destinata a sconvolgere i modelli della comunicazione politica. Quando presentò il suo prodotto, un partito costruito in laboratorio dai suoi dipendenti di Publitalia, col nome rubato all’urlo dello stadio, il colore scippato alla maglia della Nazionale, liste formate arruolando a destra e manca, nessuno si rese conto di avere a che fare non con un’anomalia bizzarra ma con l’alba di una nuova normalità. La politica come prodotto. Il leader come testimonial.

La “linea politica” in secondo piano rispetto al rapporto emotivo e fiduciario garantito dalla persona del leader, dalle sue doti di grande venditore. La proposta programmatica rimpiazzata dalla comunicazione empatica di un leader col quale, a differenza che con le figure carismatiche del passato, si potevano identificare tutti e molti in effetti si identificavano. Un italiano, anzi un arci-italiano che ce l’aveva fatta. C’è chi sostiene che Berlusconi avesse costruito in anticipo i suoi elettori grazie alla tv e forse un po’ è vero. Prima e forse più che con la politica il Cavaliere ex palazzinaro aveva trasformato l’Italia e gli italiani con le sue reti: Telemilano, acquistata nel 1976 e trasformata in Canale 5 due anni dopo, poi Italia 1 nell’82 e Rete 4 nell’84.

Finivest insomma, con i suoi film spezzati dalla valanga di spot, i lustrini e la spregiudicatezza sconosciuta a Mamma Rai, la scoperta di una comicità lombarda che deflagrava in uno show-biz che da sempre parlava e rideva solo in romano. I pretori di tre città oscurarono la rete che, grazie a un sotterfugio, aggirava il divieto di programmazione nazionale. Craxi intervenne con mano pesante e salvò l’amico, personificazione stessa del craxismo, emblema rampante della Milano da bere. Nel ‘90 la legge Mammì mise fine al contenzioso legalizzando quel che era già reale pur se illegale. Cinque ministri della sinistra Dc – tra loro un futuro presidente della repubblica – si dimisero per protesta. Il presidente del consiglio Andreotti li sostituì nel giro di poche ore.

E’ vero, negli anni ‘80 le reti Fininvest, poi Mediaset, avevano trasformato gli elettori in acquirenti pronti a farsi abbagliare dallo sfarzo a basso conto delle tv di Sua Emittenza, dal kit del propagandista distribuito nella prima caotica e affollatissima “convention” azzurra a Roma, dall’inno-jingle del partito di plastica: “E’ Forza Italia, per essere liberi…”. Ma tutto questo sarebbe servito a poco senza l’abilità di venditore del leader, uno di quelli capaci di smerciare qualsiasi cosa senza lasciarti il tempo di capire perché stai aprendo il portafogli. Uomo della prima Repubblica come pochi altri, si presentò come il campione della rivoluzione liberale senza che la nobile bandiera gli impedisse di arruolare gli ufficiali allo sbando dei partiti distrutti da tangentopoli.

L’azzardo, e di azzardo si trattava perché se sconfitto l’ira dei vincitori sarebbe stata implacabile, non sarebbe riuscito senza una manovra politica della cui portata, invece, qualcuno prese atto subito: la fondazione della destra italiana, quella che oggi governa, per la quarta volta ma per la prima senza Berlusconi al timone, il Paese. In fondo ciò che molti non perdonano a Berlusconi e per cui molti altri sono stati disposti a soprassedere su tutto, le bugie su Ruby nipote di Mubarak, le olgettine, l’attenzione sempre desta agli interessi privati, l’editto bulgaro che nel 2002 cacciò dalla Rai i tre principali giornalisti non allineati, è proprio aver costruito la destra in un Paese che ne era privo. Oggi sembra una cosa ovvia, trent’anni fa non lo era affatto. Lo stesso Berlusconi, nella prima fase, si sbracciava per chiarire che la sua Fi non era “di destra o di sinistra” ma un partito “del fare”.

L’alleato Bossi, già tesserato del Pci, si definiva “erede della lotta partigiana” e il 25 aprile sfilò a Milano nella gigantesca manifestazione contro il governo. Gli esponenti di un Msi non ancora An bisognava tenerli quasi nascosti, lontano dai ministeri. L’alchimia era tanto improbabile che il governo nato dalla trionfale vittoria del Polo delle Libertà del 27 marzo 1994 durò appena pochi mesi, poi la Lega staccò la spina e detronizzò “Berluskaiser”, come lo chiamava Bossi.

Eppure il vero miracolo di Berlusconi è stato proprio questo: creare la destra assemblando aree e pezzi di mondo politico apparentemente incompatibili. Gli ci sono voluti anni, dalla caduta rovinosa del dicembre 1994 alla vittoria nelle elezioni del 2001 e del 2008. E’ stata una storia costellata da rotture, quella con Bossi poi ricucita, quelle con i centristi cattolici di Casini, con Fini, la più insanabile, con il delfino Alfano. E’ un progetto che ha cambiato nome e ragione sociale a ripetizione: Polo delle libertà, Casa delle libertà, Popolo della libertà, cioè il partito unico Fi-An annunciato sbrigativamente da un predellino a latere di una manifestazione e altrettanto sbrigativamente franato. Ma sin dall’inizio, dalla vittoria a sorpresa del 1994, è stato chiaro che in Italia non c’erano più solo un centro oscillante da un lato all’altro dello spettro politico e una sinistra e che con la destra si sarebbero dovuti da quel momento in poi fare i conti.

Quella di Berlusconi è stata una destra che ha puntato sulla diffidenza degli italiani nei confronti dello Stato, che ha coscientemente incentivato alcune tra le tendenze peggiori del Paese, dall’abusivismo all’evasione fiscale. Ma è stata anche una destra democratica non solo in superficie. Se e quanto sia destinata a restarlo senza più il padre fondatore è tutto da verificare. Molto prima del M5S, il padre padrone di Fi ci teneva a chiarire che lui non era un politico di professione: “il teatrino della politica” era la sprezzante definizione con la quale innescò e sfruttò per primo il populismo antipolitico. Non era solo sceneggiata: per Berlusconi i confini tra personale e politico sono sempre stati evanescenti.

Ha sopportato il dissenso politico, mai quelli che a torto o a ragione gli sembravano tradimenti personali. Si è inventato una politica estera basata sui rapporti personali, su lettoni regalati da Putin e sui presidenti americani invitati in villa, e forse è quanto di meglio abbia fatto come uomo di governo. Ma ha anche considerato normale rendere la difesa dei suoi interessi e dei suoi problemi legali una priorità politica e spesso la priorità politica assoluta, e forse è il peggio che abbia fatto come presidente del Consiglio. Berlusconi è stato garantista, certamente per necessità, forse anche per virtù. Considerava una persecuzione il mostruoso moltiplicarsi di inchieste a suo carico, a partire da quell’avviso di garanzia che fu essenziale per far cadere il suo primo governo e che si trovò spiattellato sul Corriere della Sera, senza essere stato avvertito del fattaccio, proprio mentre presiedeva un vertice internazionale sulla criminalità.

Una vena persecutoria in quelle inchieste c’era davvero, non perché non ci fossero spesso gli estremi per indagare ma perché se le stesse forze fossero state dispiegate per fare le pulci a tutti gli industriali non se ne sarebbe probabilmente salvato nessuno. Ha costretto una destra forcaiola a seguirlo e difenderlo ma scommettere oggi su quanto garantista resterà ora che è in mano solo a Giorgia Meloni e Matteo Salvini significherebbe rischiare grosso.

Berlusconi è stato un sovrano senza discendenza politica. Lui stesso si è preoccupato pochissimo di garantire un futuro alla sua creatura, ha considerato la successione un particolare trascurabile. In un certo senso si riteneva immortale, o almeno si comportava come se lo fosse, sino all’ultimo straziante messaggio del maggio scorso del san Raffaele. Le possibilità di sopravvivenza del suo partito sono ora esigue. La destra invece è ormai in grado di fare a meno del fondatore ma non resterà la stessa e probabilmente sarà peggiore di quella che è stata nei decenni del berlusconismo e dell’antiberlusconismo, accoppiata perdente che ha fatto alla cultura politica di questo Paese infiniti danni.

13 Giugno 2023

Condividi l'articolo