Il caso Giovanardi

La libertà di opinione dei politici sotto il tallone dei magistrati…

Minacce o atti di violenza non possono rientrare certo nelle prerogative dei parlamentari. I quali hanno però il diritto e il dovere di fare denuncia politica: l’insindacabilità va tutelata

Editoriali - di Salvatore Curreri

25 Gennaio 2024 alle 19:00

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La libertà di opinione dei politici sotto il tallone dei magistrati…

È ingiustamente passata quasi inosservata la sentenza n. 218/2023 con cui la Corte costituzionale ha accolto il conflitto di attribuzione sollevato dal Tribunale di Modena, su richiesta della locale Procura della Repubblica, contro il Senato a proposito di talune asserite condotte delittuose dell’ex senatore Giovanardi.

Eppure, al pari delle più note e commentate recenti sentenze sempre in tema di prerogative parlamentari – quelle sulle (legittime) intercettazioni casuali di Ferri (n. 157/2023), i messaggi whatsapp e le mail di Renzi (n. 170/2023) e le (invece illegittime) intercettazioni indirette di Esposito (n. 227/2023) – tale sentenza ci dice molto sull’esercizio del libero mandato parlamentare in rapporto con l’azione della magistratura.

L’ex senatore Giovanardi, infatti, è tuttora accusato di violenza e minaccia a pubblico ufficiale, segnatamente contro il Prefetto e il comandante provinciale dei Carabinieri di Modena, per aver con le sue condotte tentato di costringerli a riammettere due aziende locali nella cosiddette white list, cioè nell’elenco dei fornitori e prestatori di servizi non oggetto d’infiltrazione mafiosa, da cui a suo dire illegittimamente escluse (come di fatto poi accertato: peccato che nel frattempo fossero fallite!).

Ora è evidente che condotte materiali come la resistenza, le minacce o gli atti di violenza contro pubblici ufficiali non possono certo, per loro stessa natura, rientrare nel novero delle opinioni espresse del parlamentare protette dalla prerogativa dell’insindacabilità prevista dall’art. 68.1 Cost.

Si tratta, infatti, di comportamenti materiali penalmente rilevanti in cui è completamente assente ogni prospettiva di critica e di denuncia politica. Di essi, quindi, il parlamentare deve essere chiamato a rispondere dinanzi all’autorità giudiziaria, così come in tutti gli altri casi che non fanno parte delle modalità di esercizio delle funzioni parlamentari, come il ricorso al turpiloquio, sia all’interno che all’esterno delle Camere (C. cost. 249/2006) o la resistenza a pubblico ufficiale (C. cost. 137/2001).

Il punto però è un altro: chi è che stabilisce che l’opinione del parlamentare costituisca una forma di violenza o di minaccia? L’autorità giudiziaria o la Camera d’appartenenza? Dalla risposta a tale domanda dipende ovviamente l’estensione della tutela del libero esercizio della funzione parlamentare e, di conseguenza, la stessa libertà del Parlamento. Per questo l’insindacabilità non è un privilegio personale del parlamentare ma una prerogativa dell’organo cui appartiene.

È evidente, infatti, che se spetta esclusivamente al giudice valutare se un’opinione di un parlamentare costituisce una violenza o minaccia a pubblico ufficiale, senza che la Camera d’appartenenza possa contestare tale qualificazione, il rischio è che la prerogativa dell’insindacabilità parlamentare possa essere facilmente elusa se non aggirata, perché basterà ritenere l’opinione del parlamentare una minaccia o una violenza perché non sia più possibile ritenerla insindacabile.

Per questo motivo il Senato aveva sostenuto nella sua memoria difensiva che, pur spettando ovviamente all’autorità giudiziaria il compito di qualificare giuridicamente le condotte in questione, avanzando in tal senso ipotesi di reato, il Parlamento, a tutela della propria autonomia, poteva darne una valutazione diversa e ritenerle non comportamenti minacciosi o violenti ma opinioni espresse dal parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni, come tali protette dalla prerogativa dell’insindacabilità.

Quel che per l’accusa è una minaccia o violenza, per il parlamentare invece rientra nella sua attività di denuncia politica di ciò che ritiene (a posteriori a giusto titolo) un abuso amministrativo. Attività di denuncia politica, peraltro, che era stata già oggetto di atti parlamentari cui era stato dato risalto mediatico tramite conferenze stampa e incontri pubblici e per la quale, dunque, sussisteva il cosiddetto nesso funzionale tra l’attività del parlamentare all’interno delle Camere e la sua divulgazione al loro esterno.

Con questo non si vuole certo dire che basti depositare un atto parlamentare perché una sua condotta diventi di per sé opinione insindacabile, conferendogli una sorta di licenza di minaccia o violenza. Piuttosto, il fatto che tale opera di denuncia sia stata oggetto di attività parlamentare avrebbe dovuto quantomeno portare a non escludere di trovarsi dinanzi non a condotte delittuose ma ad un’attività di denuncia politica rientrante nelle legittime forme d’esercizio della funzione parlamentare.

Sul punto decisivo, ovvero su a chi – tra giudice e camera d’appartenenza – spetti qualificare le singole condotte del parlamentare sul piano giuridico – opinione o comportamento minaccioso? – la Corte costituzionale ha optato per il primo, aderendo alla tesi dell’autorità giudiziaria ricorrente, sebbene tale ipotesi di reato sia ancora da provare.

D’ora in poi, quindi, basterà che una Procura della Repubblica consideri l’opinione parlamentare alla stregua di una violenza o di una minaccia perché al parlamentare sia negata la prerogativa dell’insindacabilità.

Con il risultato che, ove tale ipotesi non venisse provata, il parlamentare potrebbe essere comunque condannato per ipotesi meno gravi, riguardanti non comportamenti ma le stesse opinioni espresse, per le quali avrebbe avuto diritto alla prerogativa dell’insindacabilità.

Tale conclusione non può non richiamare alla mente quella sul caso Ferri. Anche in quella sentenza, infatti, la Corte costituzionale, anziché difendere il diritto del parlamentare di non essere intercettato indirettamente senza la preventiva autorizzazione della Camera d’appartenenza, come prescritto dall’art. 68.3 Cost., ha dato per buona l’intenzione dell’autorità giudiziaria di non voler (ancora) indagare il deputato in questione, nonostante era noto che fosse oggetto d’intercettazione.

Insomma, come quella sentenza, anche questa sul caso Giovanardi pare eccessivamente indulgente circa il potere di qualificazione dei poteri d’indagine dell’autorità giudiziaria contro i parlamentari, a discapito delle loro prerogative costituzionali. Un nuovo preoccupante segnale che contribuisce a squilibrare il rapporto già in tensione tra politica e magistratura.

25 Gennaio 2024

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