La difesa della Costituzione

Caso Ferri, la Consulta e la Carta ferita

Le dichiarazioni del giudice Zanon confermano le perplessità espresse a suo tempo: la Corte dev’essere indipendente anche dal potere giudiziario

Giustizia - di Salvatore Curreri

19 Dicembre 2023 alle 16:00

Condividi l'articolo

L’ex magistrato Cosimo Ferri
L’ex magistrato Cosimo Ferri

«Il “caso Ferri” altera il già precario equilibrio tra politica e magistratura». Così titolava questo giornale il mio commento dello scorso 2 agosto alla sentenza (157/2023) con cui la Corte costituzionale aveva accolto il conflitto di attribuzioni sollevato dalla sezione disciplinare del Csm contro la Camera dei deputati per aver questa negato l’uso contro l’allora deputato (ed ex magistrato) Cosimo Ferri delle intercettazioni eseguite tramite trojan introdotto nel cellulare di Palamara nel corso del famoso incontro all’Hotel Champagne di Roma in cui si discusse della nomina del nuovo Procuratore della Repubblica di Roma.

Tale sentenza, infatti, smentisce la precedente giurisprudenza costituzionale in tema di intercettazioni dei parlamentari. Fino ad allora, infatti, era pacifico che, secondo l’art. 68 della Costituzione, senza preventiva autorizzazione della Camera d’appartenenza nessun parlamentare potesse essere intercettato. A tal fine ciò che rilevava era la volontà d’intercettare il parlamentare, indipendentemente dal titolare dell’utenza intercettata o del luogo frequentato.

Quindi, ad esempio, occorreva l’autorizzazione preventiva per intercettare un collaboratore con cui il parlamentare parla abitualmente, mentre l’autorizzazione poteva essere richiesta successivamente se si voleva utilizzare contro il parlamentare il contenuto di una intercettazione occasionale, cioè acquisita intercettando altri soggetti con cui era imprevisto e imprevedibile il parlamentare avesse conversato.

Rispetto a tale consolidata giurisprudenza la sentenza in esame sorprendentemente perveniva a conclusioni diverse. Di qui le tre considerazioni svolte nel mio articolo: 1) l’evidente dissenso tra i giudici costituzionali sulla decisione presa, testimoniato dal fatto che il giudice relatore (l’attuale vice presidente Modugno) aveva rinunciato ad estendere la sentenza, redatta poi dal giudice Petitti; 2) la completa emarginazione del Parlamento, d’ora in poi privato della possibilità, in sede di autorizzazione all’uso delle intercettazioni effettuate, di contestare al giudice la natura non casuale ma mirata della intercettazione, dato che sapeva che l’ex deputato avrebbe partecipato all’incontro, e quindi il conseguente obbligo di autorizzazione preventiva anziché successiva; 3) la possibile, anzi probabile futura elusione della prerogativa costituzionale sancita dall’art. 68 della Costituzione, visto che da ora in poi il parlamentare può essere intercettato, senza bisogno che il giudice chieda l’autorizzazione preventiva della camera d’appartenenza, fin quando non decida d’iscriverlo nel registro degli indagati.

Tale conclusione, scrivevo, costituisce una sensibile restrizione della prerogativa parlamentare perché presumibilmente l’ambito delle intercettazioni che il giudice autocertificherà come occasionali si andrà ad ampliare, includendovi non solo quelle in cui il parlamentare sarà ritenuto interlocutore imprevisto ed imprevedibile, ma anche quelle in cui la sua presenza può ritenersi prevedibile, fintantoché egli non diventi bersaglio diretto dell’indagine. Da qui il timore che tale sentenza potesse contribuire ad alterare il già precario equilibrio nei rapporti tra politica e magistratura.

Le rivelazioni dell’ex giudice Zanon – che evidentemente si sta levando un po’ di sassolini dalle scarpe (v. l’intervista rilasciata a Libero il 13 novembre in cui ha espresso considerazioni critiche sulle sentenze circa il rinnovo dei permessi di soggiorno e sul caso Regeni) – non solo confermano le considerazioni critiche espresse sulla sentenza della Corte ma anche, e soprattutto, gettano una luce sinistra sulle sue motivazioni.

Tutti i commentatori, in dottrina, hanno rilevato che la sentenza sul “caso Ferri” costituisce un improvviso e inaspettato passo indietro della Corte circa la tutela della libertà di mandato del parlamentare, tema, peraltro, sul quale l’ex giudice Zanon è particolarmente sensibile, avendogli dedicato nei suoi studi giovanili una fondamentale monografia.

Ciò, tanto più se la si paragona con la quasi coeva sentenza sul “caso Renzi” (redatta non a caso dal giudice Modugno, poi come detto protagonista del “gran rifiuto”), in cui la Corte costituzionale ha al contrario fatto un passo in avanti, estendendo la prerogativa della insindacabilità parlamentare anche alle mail ed alla messaggistica istantanea tramite ad esempio whatsapp.

Ma nessuno in dottrina, non foss’altro per il doveroso rispetto verso la Corte costituzionale e le motivazioni delle sue sentenze, era andato al di là dal rilevare il dissenso all’interno della Corte – testimoniato come detto dalla infrequente diversità tra giudice relatore e giudice estensore – per ipotizzare fattori esterni che potessero aver condizionato la decisione.

Invece, a prestar fede a quanto dichiarato dal giudice Zanon nel corso di un incontro di presentazione del libro (La gogna) che Alessandro Barbano ha dedicato alla vicenda, la Corte ha deciso di dare ragione al Csm (e alla Cassazione che aveva radiato Palamara dalla magistratura) e torto alla Camera dei deputati perché se si fossero dichiarate illegittime le intercettazioni, le prove acquisite sarebbero state di conseguenza nulle e con esse le decisioni prese contro i magistrati ed ex magistrati che avevano partecipato all’incontro all’Hotel Champagne.

Un argomento – come condivisibilmente rilevato dall’ex giudice Zanon – da far “inviperire” perché testimonierebbe una clamorosa e inaccettabile inversione del percorso argomentativo che ogni giudice, tanto più costituzionale, deve seguire in cui ogni decisione è la conseguenza della ricostruzione in punta di fatto e di diritto del caso e non viceversa il suo presupposto: è la motivazione che deve fondare il giudizio e non il (pre)giudizio che deve trovare le sue motivazioni.

Inutile dire che tali dichiarazioni lasciano basiti chi ancora, a questo punto ingenuamente, crede ancora che nello Stato di diritto e nel rispetto della legge, non piegata ad interessi di parte. Del resto, la stessa composizione della Corte costituzionale, peraltro imitata da altri Paesi, risponde all’esigenza che nessuna delle tre componenti – la magistratura che nomina cinque giudici, la politica che tramite il Parlamento in seduta comune ne elegge altrettanti, il presidente della Repubblica quale organo neutrale che ne designa altri cinque – possa prevalere sulle altre.

Qui, invece, pare che la forza della magistratura abbia finito per prevalere sulle altre, peraltro – contrariamente al famoso detto giolittiano, interpretando la legge stavolta per i nemici.

Ora, se è certamente criticabile in termini di metodo il fatto che il giudice Zanon abbia violato il segreto della camera di consiglio (finché questa regola esiste va scrupolosamente osservata, non si introduce la dissenting opinion ex post in forma anomala) se ne dovrebbe ricavare una conseguenza importante per il Parlamento, chiamato a eleggere nel 2024 ben quattro giudici costituzionali: oltre ai requisiti costituzionali richiesti (l’essere magistrati, professori di diritto o avvocati), i parlamentari valutino bene anche l’effettiva indipendenza dal potere giudiziario, ossia l’assenza di eccessivi timori reverenziali verso il medesimo, e non solo rispetto ai partiti politici. Da una forzatura metodologica traiamo quindi materia non per polemiche retrospettive ma per un insegnamento positivo di prospettiva.

19 Dicembre 2023

Condividi l'articolo