La sentenza
Fine vita, Consulta ignorata e tradita
Nel 2019 ha aperto la strada al suicidio assistito (ad alcune condizioni), ma sembra che per la politica quella sentenza non esista. Il parlamento non ha mosso un dito. Il Veneto ha bocciato la pdl popolare regionale che definiva le modalità di accesso. I cittadini restano in un limbo odioso
Editoriali - di Andrea Pugiotto
1. «È più malvagio togliere la vita a chi vuol vivere o negare la morte a chi vuol morire?». Il dilemma (che incrocio nel noir del norvegese Jo Nesbø, L’uomo di neve) rimanda alla cruciale questione del “fine vita”, transitata in questi giorni tra i banchi del Consiglio della Regione Veneto.
Il diritto mite conosce lo strumento per affrontare simili “questioni ultime”: le leggi facoltizzanti. Lo ricordava nel 2007, al seminario dei costituzionalisti italiani sui «problemi pratici della laicità agli inizi del secolo XXI», un grande giurista cattolico come Leopoldo Elia: «leggi che consentano di ricorrere a taluni istituti in via del tutto facoltativa», espressione di quella funzione permissiva del diritto che – invece di vietare – consente senza costringere alcuno, libero di non avvalersene secondo i propri convincimenti religiosi o morali.
Perché – concludeva Elia – «le leggi vanno fatte per i credenti e per i non credenti» e le leggi facoltizzanti «sono di norma le più adatte ad una società pluralista e multiculturale». Starebbe al Parlamento approvarle, ma «i politici han ben altro a cui pensare». Così, in Italia, il “fine vita” resta stretto nel forcipe di due reati del codice Rocco: l’aiuto al suicidio e l’omicidio del consenziente.
2. Sul primo è intervenuta la Corte costituzionale, stabilendo che il divieto assoluto dell’art. 580 c.p. è illegittimo (sent. n. 242/2019). Infatti, non è più punibile chi agevola il suicidio di un malato di patologia irreversibile, capace di esprimere un libero consenso, gravato da sofferenze psico-fisiche insopportabili, che sopravvive grazie a un supporto vitale.
Sulla necessità di quest’ultimo requisito, peraltro, la Consulta dovrà ritornare, sollecitata da una recentissima quaestio promossa dal GIP di Firenze. Servirebbe una legge per disciplinare tempi e modi della relativa procedura – tratteggiata in sentenza – che chiama una struttura pubblica del SSN, previo parere del comitato etico territoriale, a verificarne le condizioni e le modalità di esecuzione. Anche qui, sarebbe dovere del Parlamento provvedere, ma «i politici han ben altro a cui pensare».
Aveva provato a stanarlo la stessa Consulta, con un’ordinanza interlocutoria (n. 207/2018) che concedeva alle Camere un anno di tempo per intervenire: da allora, ne sono trascorsi più di cinque. Inutilmente, nonostante una proposta di legge di iniziativa popolare in tema di rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia: depositata in Senato nella XVIII legislatura e ripresentata nella XIX, non è mai stata discussa.
Oltre a svuotare di effettività una facoltà costituzionalmente dovuta, quella del legislatore è una latitanza odiosa e crudele, perché aggiunge al calvario del malato ulteriori stazioni: ricorsi giurisdizionali, attese protratte senza tempi certi, interdizioni e ostacoli burocratici, oneri economici.
Fino a spingere il paziente a rassegnarsi talora a una soluzione non voluta (l’interruzione delle terapie con sedazione profonda, fino alla morte) che lo costringe «a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care» (ord. n. 207/2018).
3. Che fare, allora? Nell’attesa di una legge statale, coinvolgere le Regioni. A queste vengono sottoposti altrettanti identici disegni di legge d’iniziativa popolare, finalizzati a definire – quanto a ruoli, procedure, tempi – modalità e condizioni d’accesso al suicidio medicalmente assistito, secondo i binari tracciati dalla Consulta.
È una strada controversa. L’iniziativa interseca materie diverse, alcune riservate allo Stato, altre condivise con le Regioni. Interpellata, l’Avvocatura dello Stato non ha escluso che la legge, se approvata, «potrebbe esporsi a rilievi di non conformità» al riparto costituzionale delle competenze legislative tra Stato e Regioni. All’opposto, Abruzzo, Emilia-Romagna, Friuli, Piemonte, Toscana, Veneto, l’hanno valutata ammissibile in quanto rientrante nelle proprie prerogative, costituzionali e statutarie.
È una strada in salita. Assente una disciplina statale, i principi fondamentali della materia – vincolanti le leggi regionali – vanno desunti dal quadro normativo che a livello nazionale è andato emergendo, giudicato costituzionale incluso. Il che espone l’eventuale legge regionale a ricorso statale, per omissioni o errori interpretativi.
È una strada stretta. Le Regioni non possono creare nuovi diritti. Possono solo dettare norme di organizzazione che rendano esercitabile, nell’ambito del SSN, quanto riconosciuto dalla sent. n. 242/2019. Ecco perché l’iniziativa legislativa popolare si limita a pochi articoli essenziali. È, tuttavia, una strada che va esplorata, nel tentativo di eliminare le tante incertezze – spesso di matrice ideologica – che crescono come funghi in assenza di regole.
4. Il Veneto è stata la prima Regione a discutere l’iniziativa legislativa popolare. È andata com’è andata: 25 voti a favore, 22 contro, 3 astenuti (equivalenti ad altrettanti voti contrari). Serviva la maggioranza assoluta dei 50 presenti, mancata quindi per un solo voto.
Affermare con sdegno che la legge avrebbe autorizzato il suicidio medicalmente assistito è falso, giacché la sua non punibilità – alle condizioni indicate dalla sentenza n. 242/2019 – è già norma dell’ordinamento. «È materia di competenza esclusiva dello Stato», hanno sostenuto – con ampia dose d’ipocrisia – consiglieri di forze politiche alle quali va imputata, a livello nazionale, l’assoluta inerzia parlamentare.
Essersi appellati al dovere di tutelare la vulnerabilità dell’aspirante suicida, concretamente significa costringere il malato terminale ad attendere per mesi, in condizioni di sofferenza estrema, prima di poter esercitare una facoltà costituzionalmente dovuta.
La denuncia di lacune normative nel testo (in tema di obiezione di coscienza o di età minima, sotto la quale non poter attivare la procedura) sembra ignorare che lo spazio d’intervento per la legge regionale non può andare oltre l’organizzazione dei servizi sanitari, senza introdurre nuovi diritti o condizioni ulteriori a quelle incapsulate nel dispositivo della sent. n. 242/2019; peraltro, un disegno di legge è sempre emendabile, nel rispetto della competenza materiale esercitata.
Chi invece ha votato contro temendo una disomogeneità normativa nel Paese, non si avvede che già oggi è così, con Regioni dove il giudicato costituzionale trova applicazione secondo modalità differenti (in via amministrativa o in esecuzione di provvedimento giurisdizionale) e tempi molto variabili, spesso insopportabilmente lunghi.
Infine, chi – pur sapendo che l’astensione equivale a un voto contrario – in nome della propria coscienza ha deciso della non-vita altrui, si è reso responsabile di un atto che non è di coerenza, ma di arroganza. Le scelte di coscienza sono tali se ricadono nella propria sfera giuridica, non in quella di altri, e sono autentiche quando non sono a costo zero, ma comportano un prezzo personale da pagare.
5. C’è un denominatore comune tra il voto veneto e la persistente anomia legislativa statale: il rifiuto della breccia aperta dalla sent. n. 242/2019. Cos’altro prova l’esplicita bocciatura dell’art. 2 del disegno di legge regionale che, nel prevedere i «requisiti per l’accesso al suicidio medicalmente assistito», ricalca il giudicato costituzionale?
Una sentenza – ci si è spinti a dire in dottrina – «esorbitante» e «discutibile», prodigiosamente trasformata in legge quando, in realtà, «non ha sancito alcun diritto all’assistenza al suicidio» né «alcun dovere del SSN di offrire il relativo “servizio”».
Ma – si può replicare – così svanisce una prestazione medicalmente assistita di carattere pubblico, costituzionalmente fondata. Né si vede come possa operare la scriminante introdotta dalla Consulta, in assenza di una procedura pubblica (salvo non si pretendano disobbedienze civili, imputazioni e -solo poi – proscioglimenti). La sent. n. 242/2019? Tamquam non esset. Invece, per quanto in grave ritardo, le istituzioni sono chiamate a darvi coerente applicazione, Regioni comprese.