L'intesa tra Lega e Fdi
Autonomia differenziata, cosa prevede la riforma secessionista di Calderoli: FdI e Lega trovano l’intesa
La maggioranza ha dato il via libera alla riforma secessionista di Calderoli tra le polemiche del Pd, furioso con Meloni: “Non si baratta una cosa così dannosa con il premierato”
Politica - di David Romoli
Quando si dice le coincidenze: ieri, con un giorno di ritardo sul genetliaco, i compagni di partito hanno festeggiato a Montecitorio il compleanno di Giorgia Meloni.
Nella sede gemella di palazzo Madama, al Senato, partivano nello stesso momento i due progetti di riforma che, se approvati rimodelleranno da capo a piedi l’Italia intonando il de profundis per questa Repubblica.
All’ora di pranzo la maggioranza si è riunita con il ministro Calderoli per cercare l’accordo sull’autonomia differenziata. L’intesa è arrivata dopo poche ore col semaforo verde della Lega all’emendamento di FdI che sulla carta garantisce a tutte le Regioni, anche a quelle che non invocheranno l’autonomia differenziata, i livelli essenziali di prestazione.
Per i tricolori e per Fi si trattava di un passaggio determinante, senza il quale non avrebbero potuto rivendicare il merito, che il presidente della commissione Affari costituzionali attribuisce a voce altissima a FdI, di aver impedito la divisione dell’Italia in un Paese di serie a e uno di serie b. Calderoli ha capito l’antifona e la Lega ha accolto la proposta di emendamento.
È una soluzione che addolcisce un po’ la pillola e permette ai due partiti alleati della Lega di non perdere del tutto la faccia di fronte al loro elettorato meridionale ma che nella sostanza non modifica le cose.
L’autonomia leghista esaspererà e porterà alle estreme conseguenze la divaricazione già profonda tra le diverse Regioni su questioni vitali come la sanità. L’opposizione insorge ma solo a parole.
La segretaria del Pd Schlein accusa la premier di “barattare il premierato con una pessima riforma dell’autonomia contro la quale ci batteremo”.
Nel concreto, però, l’opposizione non sembra avere la minima idea di come contrastare una riforma che, non essendo costituzionale, non dovrà passare per il vaglio del referendum salvo raccolta delle firme per un referendum soppressivo del quale al momento non parla nessuno.
Con l’accordo raggiunto ieri, l’autonomia dovrebbe essere approvata domani anche se probabilmente il voto finale del Senato slitterà a martedì prossimo.
Poi sarà il turno della Camera ma la tabella di marcia è tale da garantire l’approvazione definitiva in tempo per le elezioni europee, in modo che un Salvini sconfitto nell’ultimo anno su tutta la linea possa sventolarla come trofeo acchiappavoti.
L’opposizione si concentra molto di più sull’altra riforma il cui cammino è iniziato ieri, sempre al Senato, in commissione Affari costituzionali, quella principale, insomma il premierato.
La Lega ha reso la pariglia ponendo subito il problema della “norma antiribaltone”. Si tratta dell’espediente che permette un solo cambio di premier nel corso della legislatura, purché votato dalla stessa maggioranza, e che rende l’intero edificio fragile, dal momento che il “secondo premier”, non eletto direttamente sarebbe molto più forte di quello eletto.
La premier, in realtà, è perfettamente consapevole della contraddittorietà implicita in quella norma, che le serve però a negare che la riforma cancelli tutte le prerogative del capo dello Stato: l’argomento “forte” che impugna l’opposizione anche se a essere spogliato di ogni prerogativa è in realtà molto più il Parlamento che non il capo dello Stato.
Ma si sa che difendere il Parlamento, nella Repubblica parlamentare italiana, è considerato quanto di più perdente si possa fare. Ci sono altri due elementi in ballo nel testo sull’elezione diretta del premier.
Sul premio di maggioranza, che nella versione attuale porterebbe la coalizione a sostegno del premier eletto al 55%, sono tutti d’accordo, non ancora sulla percentuale oltre la quale scatterebbe il premier.
Per come stanno messe le cose al momento, nell’eventualità di tre o quattro candidati alla presidenza del Consiglio, si potrebbe dare il caso di un premio di maggioranza del tutto sproporzionato, del 20 o addirittura del 30% e l’ipotesi è già stata bocciata in passato dalla Corte costituzionale. È dunque necessario fissare una soglia oltre la quale far scattare il premio e questo è, con la “norma antiribaltone” il principale capitolo in discussione.
Ce ne è anche un terzo, però: l’assenza nel testo di un limite dei mandati del premier eletto, che senza modifiche potrebbe essere rieletto infinite volte.
Il problema esisterebbe comunque e sarebbe enorme ma lo è tanto più dal momento che per i sindaci e i presidenti di regione il tetto invece c’è, quello dei due mandati che la Lega chiede di portare a tre per blindare il Veneto con la rielezione di Zaia.
Meloni è decisa a resistere, proprio perché mira a strappare al Carroccio il Veneto. Nel decreto che fissa per l’8 e 9 giugno l’election day è prevista l’eliminazione del tetto, ma solo per i sindaci dei comuni al di sotto dei 15mila abitanti e la premier, nonostante il martellamento di Salvini, non intende andare oltre.
Però immaginare un Paese in cui sindaci e governatori possono restare in carica solo per due legislature mentre il premier non ha limiti di sorta è forse troppo persino per la voracità di Giorgia Meloni.