25 anni dalla scomparsa
Quando Genova era la capitale della musica impegnata con De André, Paoli, Bindi e Tenco
Ribelle naturale, anarchico iscritto alla Fai, per 10 anni fu tenuto sotto sorveglianza dai servizi, lo consideravano simpatizzante delle Br
Cultura - di David Romoli
Fabrizio De André è stato il grande ribelle della musica e forse, più in generale, della moderna cultura italiana: un ribelle naturale, viscerale, anarchico di fatto oltre che di nome e di appartenenza, come non se ne trovano altri anche nel panorama vasto degli autori e cantautori critici.
Forse per questo, persino più che per la musica, che soprattutto all’inizio della carriera di Faber non era gran cosa, e per la poetica, invece sempre densa, diverse generazioni lo hanno eletto nel corso del tempo a propria voce e coscienza critica.
Ragazzo di buona famiglia, padre industriale fattosi da sé e vicesindaco di Genova, era uno di quei ragazzi degli anni ‘50 che a scuola si applicavano poco, tiravano matti i professori lasciando i temi a metà, si facevano cacciare per indisciplina.
Genova era la capitale della musica impegnata in quegli anni: Paoli, Bindi, Lauzi, Tenco, che di Fabrizio era grande amico e al quale, dopo il suicidio e dopo essere corso subito a Sanremo per salutare la salma, dedicò Preghiera in gennaio.
Cantavano l’amore con toni diversi da quelli in voga a Sanremo e un po’ anche i primi embrioni di rivolta. Nessuno però era tanto affilato e martellante nel prendere di petto il potere, ogni potere perché “non ci sono poteri buoni”, il perbenismo, il moralismo, “i buoni e i giusti” di cui il giovanissimo De André diffidava esattamente come avrebbe fatto, molti decenni dopo, l’ultimo, ormai famosissimo De André.
Da Via del Campo, incisa a 25 anni, alla bellissima Princesa, scritta trent’anni dopo con l’ex Br Maurizio Iannelli e dedicata alla trans brasiliana che lo stesso Iannelli e Renato Curcio avevano ospitato e difeso in carcere, la sola differenza é la molto maggiore maturità musicale raggiunta nel frattempo dall’autore.
Con l’amico del cuore di sempre e autore del testo di Carlo Martello, Paolo Villaggio, fratelli sin da quando non avevano ancora 10 anni, batteva quelle zone della città, i vicoli del porto, dove “la luce del buon dio non dà i suoi raggi” e dove la gente per bene non metteva piede.
Frequentava le puttane, protagoniste non solo spesso della sua arte ma anche della sua vita e formazione giovanile: non come cliente ma come amico e a volte fidanzato. Si sa che il modello primo e principale delle sue canzoni, soprattutto nella prima fase, é stato Georges Brassens.
Poi sono arrivati Leonard Cohen e, immancabile, Bob Dylan. Però se c’è un cantautore al quale per certi versi De André somiglia davvero, pur non avendo mai inciso una sua canzone, é casomai Lou Reed, un altro ragazzo di buona famiglia innamorato, come il maestro Nelson Algren, della parte selvaggia, magneticamente attratto dai vinti, dai disperati, dai disonesti, dai marginalizzati, dai piccoli fuorilegge.
L’uno e l’altro, il newyorchese e il genovese, convinti che solo tra quei miasmi si riesce a respirare un poco d’aria pura. L’uno e l’altro, inoltre, avevano abbandonato gli stupefacenti, le droghe per Reed, l’alcol per De André, nell’ultimo scorcio delle loro vite: De André per rispettare la promessa fatta al padre sul letto di morte.
Politicamente De André era anarchico, ispirato in particolare da Max Stirner, dunque un anarchico individualista, regolarmente iscritto alla Fai, finanziatore della stampa anarchica. Posizione scomoda e sospetta per tutti.
Per il potere che per dieci anni, dal 1969 al 1979 lo tenne sotto continua sorveglianza dei servizi segreti considerandolo addirittura, in una informativa del Sisde, simpatizzante Br. Ma anche per chi, all’epoca, si riteneva nemico del potere.
Quando nel 1973 pubblicò il suo album più politico, Storia di un impiegato, la stroncatura fu corale e i critici “di Movimento”, furono anche più feroci di quelli dell’establishment: robaccia tanto in termini musicali che politici, un brutto passo falso nella migliore delle ipotesi, la prova di che poca cosa fosse a conti fatti il sedicente ribelle per molti altri.
Ci sono voluti decenni per concludere che quel disco da strapazzo é una delle cose migliori che De André abbia mai sfornato. La ripugnanza di Faber per l’establishment e per la sua cultura vincente andava a braccetto con il rifiuto puntuale del mainstream musicale. Quando con la seconda compagna e poi moglie, la grande Dori Ghezzi, scoprì la Sardegna, negli anni ‘70, fu una cesura su entrambi i piani.
La Sardegna era la terra dei pellerossa d’Italia, cancellati nella loro identità e cultura dalla voracità del mercato colonizzatore, ed era anche l’avvio di una ricerca musicale che di lì a poco avrebbe portato alla creazione, a quattro mani con un grande musicista come Mauro Pagani, dell’insuperato e insuperabile capolavoro, Creuza de Ma’, il disco in genovese, mediterraneo, lavorato di cesello nella ricerca musicale, world music quando ancora la definizione non esisteva.
In Sardegna, si sa, De André se la vide anche molto brutta: sequestrato con Dori nell’agosto 1979, tenuto prigioniero per quattro mesi prima di essere liberato dietro riscatto di circa mezzo miliardo, sborsato per lo più dal padre.
Raccontò quei mesi tremendi in una delle sue canzoni più belle e sentite, Hotel Supramonte, e dimostrò ancora una volta la sua tempra e la sua profonda coerenza perdonando i sequestratori, rifiutando di presentare la denuncia, persino scrivendo al presidente della Repubblica invocando la grazia per uno di loro.
L’afflato cattolico verso il perdono, però, non deve in questo caso essere scomodato. Quello dei due sequestrati era uno schieramento aperto, non un generico perdono: “Capiamo i banditi e le ragioni per cui agiscono in quel modo anche se il sequestro di persona è tra i delitti più odiosi”, dichiarò il cantautore al processo e per i due mandanti, un veterinario e un assessore comunale con la tessera del Pci in tasca, non ci fu alcun perdono.
Non che ce ne fosse bisogno: si avvalsero della legge sui pentiti e presero pene lievi, a differenza della manovalanza. Tra gli amici intimi di De André c’era anche Beppe Grillo, incaricato dalla famiglia a presiedere alla cremazione.
Ma anche se il comico una sua vena anarchica in fondo ce l’ha, nessuno é stato più distante dall’attuale culto legalitario, del resto non limitato al Movimento fondato da Grillo ma pervasivo, di chi aveva dedicato la sua canzone al pescatore che evita di denunciare un assassino.
A 25 anni dalla prematura scomparsa tutti esaltano oggi Fabrizio De André e si diffonderanno in elogi ma la verità è che Faber è stata la voce di un tempo e di un sentimento opposti a quelli che viviamo oggi.