Industria
Ex ILVA di Taranto: il governo Meloni alle prese con la crisi, le soluzioni per il divorzio da Arcelor Mittal
Entro mercoledì la soluzione per ArcelorMittal fuori da Acciaierie d’Italia. L'acquisizione e il contenzioso. Il ministro Urso: "Nessuno degli impegni presi è stato mantenuto. Intendiamo invertire la rotta cambiando equipaggio"
Ambiente - di Redazione Web
Sono due le possibilità per il futuro dell’ex ILVA di Taranto, il più grande stabilimento di produzione d’acciaio in Europa, da anni al centro di indagini, processi, programmazione puntualmente fallita, conversione soltanto propagandata. Lo Stato e la società Arcelor Mittal hanno maturato la convinzione di non poter più guidare insieme Acciaierie d’Italia, così come confermato dal governo giovedì al Senato e in un incontro con i sindacati. “Abbiamo quindi dato mandato ad Invitalia e al suo team di legali di esplorare ogni possibile conseguente soluzione”, ha dichiarato il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso.
Al momento nell’ex ILVA lavorano 10.500 persone cui vanno aggiunte altre migliaia nell’indotto. L’ex ILVA appartiene alla società Acciaierie d’Italia che oltre allo stabilimento di produzione nella città in Puglia ne gestisce altri tra Liguria, Piemonte e Veneto. Il 68% della società è della multinazionale franco indiana Arcelor Mittal, il 32% appartiene allo Stato. La multinazionale aveva comprato l’ex ILVA all’asta nel 2018. Avrebbe dovuto risanare la sede dopo anni di indagini per danni ambientali. Non vuole più investire negli impianti.
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Il governo di Giuseppe Conte cancellò il cosiddetto scudo penale e alla fine del 2020 lo Stato decise di tornare nella società. A dicembre venne approvato un accordo per rilanciare l’azienda secondo cui lo Stato sarebbe tornato in possesso del 60% del capitale dell’azienda entro maggio 2022. Quel passaggio è puntualmente slittato e non è mai stato raggiunto. Lo Stato vuole evitare la chiusura e migliaia di licenziamenti. Entro mercoledì 17 gennaio si dovrà trovare un accordo. Sull’ex Ilva “c’è l’urgenza di un intervento drastico che segni una svolta netta rispetto alle vicende per nulla esaltanti degli ultimi 10 anni”, ha dichiarato il ministro Urso parlando di “momento decisivo” per lo stabilimento di Taranto.
Le due soluzioni per l’ex ILVA
La prima soluzione, quella più conveniente per lo Stato, è la separazione consensuale tramite l’acquisizione delle quote di Arcelor Mittal. Una strada che porterebbe a una nazionalizzazione, trovare un nuovo socio intenzionato a investire e rilanciare l’acciaieria. Lo scoglio in questo caso è il raggiungimento di un accordo economico tra le parti. Senza contare il grave danno d’immagine, e quindi la relativa appetibilità sul mercato dello stabilimento, subito dopo le inchieste e le costanti critiche e proteste per le conseguenze che ILVA ha avuto sul territorio, tra ambiente e salute dei residenti.
L’altra soluzione è il ricorso all’amministrazione straordinaria – una forma di amministrazione che permetterebbe alla società di restare aperta dopo aver concordato un piano di risanamento con il tribunale – tramite il cosiddetto decreto ILVA del 2023. La prima strada si fa preferire perché eviterebbe anche l’apertura di un contenzioso legale che allungherebbe i tempi.
La posizione del governo su ILVA
La produzione di ILVA, così come riferito in Senato dal ministro Urso, nel 2023 non raggiunto le tre milioni di tonnellate come nel 2022. L’obiettivo minimo era stato fissato a quattro milioni. “Nulla di quello che era stato programmato e concordato è stato realizzato. Nessuno degli impegni presi è stato mantenuto in merito agli impegni occupazionali e al rilancio industriale. In questi anni la produzione si è progressivamente ridotta in spregio agli accordi sottoscritti”, aveva dichiarato Urso in aula. “Intendiamo invertire la rotta cambiando equipaggio. Ci impegniamo a ricostruire l’ex Ilva competitiva sulla tecnologia green su cui già sono impegnate le acciaierie italiane, prime in Europa”.
Il ministro aveva spiegato come “Arcelor Mittal si è dichiarata disponibile ad accettare di scendere in minoranza ma non a contribuire finanziariamente in ragione della propria quota, scaricando l’intero onere finanziario sullo Stato ma, nel contempo, reclamando il privilegio concesso negli originali patti tra gli azionisti realizzati quando diedero vita alla società Acciaierie d’Italia di condividere in ogni caso la governance, così da condizionare ogni ulteriore decisione”. Ha definito i patti firmati dal governo Conte nel 2020 “leonini”.