I dati di EuroTax Observatory
In ‘fuga’ 230 miliardi, sparito il 10% del PIL italiano. E la sinistra che fa? Pensa al bavaglio!
La sinistra italiana non ha tempo da perdere per capire dove e perché è finito un decimo del nostro Pil. Perciò, se non si cambia strada, Meloni durerà a lungo
Editoriali - di Piero Sansonetti
Ci sono duecentotrenta miliardi che mancano al bilancio economico di questo paese. Cioè più di un decimo del Pil. Di questi duecentotrenta miliardi, che sono all’estero e per noi italiani è come se non esistessero, almeno 150 sono frutto di evasione fiscale.
Sono tutti miliardi portati fuori dal paese e investiti in speculazioni finanziarie, o semplicemente nascosti. Poi ci sono altri miliardi, ma di questi attualmente non sappiamo niente, che sono sempre all’estero ma sono stati investiti in beni immobiliari, e altri ancora che sono investiti in attività economiche.
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Queste cifre non sono il frutto di qualche ricerca di uffici studi di sindacati o partiti. Cioè non sono funzionali a interessi o ipotesi o strategie politiche. Sono il risultato di un lungo e dettagliato lavoro di un istituto internazionale che si chiama EuroTax Observatory, che è un gruppo di ricerca organizzato dalla Paris School of Economics e guidato dall’economista Gabriel Zucman.
La notizia è stata pubblicata nei giorni scorsi dal “Corriere della Sera”, che è considerato il più importante giornale della borghesia italiana. Lo studio dice tra il 2106 e il 2022 gli italiani hanno portato nei paradisi fiscali europei, asiatici e americani circa 160 miliardi di euro, che si sono sommati ai 74 miliardi di euro che già erano fuggiti. E dice che in questi ultimi anni la fuga dei capitali ha subìto un’impennata senza precedenti.
Naturalmente queste cifre, che raccontano di gigantesche opere illegali che modificano profondamente le relazioni economiche e sociali di un paese, interessano poco i moralizzatori. Tantomeno la magistratura.
Se per caso un Pm scopre un traffico di influenze di centomila o duecentomila euro – che peraltro riguarda solo l’equilibrio divisione degli appalti e nei rapporti tra imprese capitalistiche – lo scandalo travolge tutti. Pensate ad esempio all’affare Verdini. O pensate alle decine di imprese, nel Mezzogiorno, che vengono prima fermate e poi azzoppate e poi fatte fallire perché sospettate di piccole irregolarità.
Del problema di fondo, invece, interessa poco e niente a tutti. Eppure con la sottrazione di oltre il 10 per cento del Pil nazionale si produce un danno grandissimo non ai propri concorrenti ma alla società, al paese, e di conseguenza, soprattutto, ai ceti più poveri.
Pensate solo che questi circa 230 miliardi sono una cifra pari o forse superiore a tutto il Pnrr. Che oltretutto è un investimento realizzato in grandissima parte a debito, e cioè che andrà restituito: è vero che muove la nostra economia, ma poi saremo noi, o i nostri figli, a doverlo ripagare.
E comunque, se la cosa può consolarci, la fuga dei capitali verso i paradisi fiscali non è un’abitudine caratteristica degli italiani. Succede la stessa cosa in quasi tutti i paesi del mondo. Nei paradisi fiscali risulta che siano custoditi circa 11 mila miliardi di euro, che rappresentano addirittura il 12 per cento del Pil mondiale.
Naturalmente queste cifre riguardano solo i beni finanziari e solo quelli accertati. Difficile immaginare quante siano le risorse economiche sfuggite anche a questa ricerca. Però sono cifre che in ogni caso ci permettono alcune riflessioni. Direi due. La prima è una certezza e la seconda è una domanda.
La certezza è che esiste un pezzo molto significativo del sistema capitalista che ha pochissimo a che fare con la produttività e con la produzione, o coi servizi e il commercio. Ha a che fare solo con la speculazione.
E’ un capitalismo finanziario improduttivo che toglie risorse e progetti al capitalismo produttivo. Lo corrode. Spingendo lo stesso liberismo contro se stesso.
Mi spiegava qualche anno fa un alto dirigente di Finmeccanica, per cercare di fare capire a me, testa dura, quale fosse la vera funzione e la vera finalità, e l’etica della finanza: raccogliere il denaro necessario, e moltiplicarlo, in modo da mettere le risorse necessarie a disposizione dell’impresa e della produzione e dei servizi.
Ecco, questo forse riguarda una parte marginale della finanza. I dati che ho trascritto ci dicono che una parte importantissima della finanza serve invece solo a drenare risorse nelle tasche di pochi e ricchissimi speculatori.
E ci dicono che questo aspetto dell’economia mondiale è uno dei fattori che spinge ad aumentare la povertà e soprattutto ad aumentare la concentrazione delle ricchezze nelle mani di una percentuale rilevante della popolazione mondiale.
La seconda riflessione, cioè la domanda, è questa: la sinistra ha qualche interesse per tutto ciò? In questi giorni, sulle colonne dell’Unità, abbiamo molto parlato di lotta di classe. Ecco, in queste cifre c’è una griglia per impostare la lotta di classe.
Mi pare però che la cosa interessi poco. La sinistra italiana è presa dal caso del deputato meloniano scemo, dal caso Verdini, da Donzelli, dalle esternazioni di La Russa, dall’emendamento Costa, da qualche brillante iniziativa di qualche Pm in carriera, dalle iniziative bislacche del sindacato giornalisti.
Non ha tempo da perdere per capire dove e perché è finito un decimo del nostro Pil. Perciò, se non si cambia strada, Meloni durerà, durerà, durerà…