L'ex governatore di Bankitalia

Chi era Guido Carli, ritratto dell’ex governatore di Bankitalia: dai pranzi con Papa Paolo VI agli anni di piombo

Ritratto dell’ex governatore di Bankitalia scritto dalla nipote (innamorata di lui). “A pranzo veniva un prete che io consideravo il parroco. Poi scoprì che era Paolo VI”. Gli anni di piombo

Editoriali - di Romana Liuzzo

2 Gennaio 2024 alle 18:00

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Chi era Guido Carli, ritratto dell’ex governatore di Bankitalia: dai pranzi con Papa Paolo VI agli anni di piombo

«Dottor Carli». Così lo chiamavano tutti, e così iniziai a chiamarlo anche io fin da bambina, continuando poi il gioco tra nonno e nipotina, anche da adolescente e poi da ragazza.

Di lui ricordo soprattutto i ritorni. Ritorni a casa da viaggi stancanti. Dietro la vetrata un po’ appannata della casa di campagna di Grottaferrata, ai Castelli Romani, poggiavo le mie manine e vedevo avvicinarsi il suo loden verde leggermente sgualcito, il cappello da pioggia e, in mano, impugnato come un trofeo, l’inalatore per respirare meglio da cui non si separava mai.

La mia sensazione di bimba era che il dottor Carli fosse circondato da un’aura di rispetto quasi sacrale: quando apriva la porta d’ingresso avevo l’impressione che perfino i muri smettessero un attimo di respirare, figurarsi le persone che lo attendevano, come la bisnonna Adelaide, la nonna Maria, i domestici….

Nonno Guido viaggiava moltissimo, in ogni parte del mondo. Io a quell’epoca vivevo nella leggendaria casa romana di Piazza Borghese 3 assieme a lui e a nonna Maria: poetessa, pittrice, creatrice di gioielli. Un’anima sensibile e raffinata, che ha riempito di delicatezza la mia infanzia. Nonno Guido, invece, ai più appariva serio e imperscrutabile. Però non si arrabbiava mai. Ma bastava interpretare quei lampi che si accendevano nei suoi occhi per far capire ai suoi interlocutori che era il caso di tacere.

Mentre scriveva pagine fondamentali della storia italiana, il dottor Carli mi insegnava tutto ciò che conosco, senza risparmiarmi prove complicate. Non avevo neanche quattro anni – era dicembre del 1969 – quando, un pomeriggio, mi fecero indossare il vestito delle grandi occasioni, quello di velluto blu con il colletto bianco, e le scarpe di vernice.

Ricordo soltanto le sue grandi mani che mi sollevavano da terra e mi facevano planare in piedi su un tavolo enorme pieno di addobbi natalizi. «Adesso Romana recita la poesia», disse. «La poesia di Natale». Ma non ero in famiglia, non avevo intorno i volti dei miei cari. Ero alla Banca d’Italia, di cui lui era Governatore. Davanti a me era schierato un esercito di persone in attesa che io iniziassi a sillabare.

Ecco, quello fu di certo il primo esame difficile della mia vita. Ma, chissà: oggi penso che niente fu per caso e che senza quella prova ora sarei diversa.

Negli anni imparai a conoscere meglio il dottor Carli aspettandolo accoccolata ai piedi del suo letto. Era quello il nostro appuntamento serale segreto, il luogo delle nostre confidenze, il nostro rituale. Mi incuriosivano i tanti libri che teneva sul comodino e che lui leggeva solo in lingua originale. Una volta ne presi uno, era scritto in un alfabeto che non conoscevo. Autore: Lev Tolstoj. «Voglio perfezionare anche il russo», mi disse quasi giustificandosi. Poi toccò al cinese.

Crescendo, scoprii molte cose sul suo conto, e alcune mi parevano assai strane. Da Governatore, anche se gli sarebbe spettato come benefit, pagò sempre l’affitto di casa. Dicono sia stato l’unico. Quando non se lo potè più permettere, trasferì tutta la famiglia armi e bagagli in uno stabile ben diverso in via Cavour.

Comunque, tanto nella casa di città quanto in quella di campagna, non c’era traccia di lusso o di sfarzo, nessuna ostentazione di «denari», come li chiamava lui. Rispetto e cura erano i comandamenti non scritti: valevano soprattutto per noi di famiglia; con i cuochi, la guardarobiera, gli autisti era molto tollerante.

Un giorno chiesi con pudore di poter avere in camera una piccola televisione a colori. Mi rispose che innanzitutto sarebbe andata in cucina, oltre che in salotto, ma mai nella mia stanza. «I domestici devono distrarsi mentre lavorano», scandì con fermezza. «Dobbiamo pensare prima a loro e poi a noi». E così fu.

Una volta lessi sui giornali che nonno era il primo contribuente italiano, prima di Gianni Agnelli e di molti altri. «Ma tu sei il più ricco di Italia?», gli chiesi molto sorpresa. Mi rispose sorridendo: «Sono solo onesto». Poi citò uno dei nostri autori di riferimento, Marco Aurelio: «Ognuno vale quanto le cose a cui dà importanza».

Era un maestro del lavoro di squadra e aveva fede nei giovani e nel merito. Questo valeva in famiglia e fuori. Nei quindici anni in cui guidò Palazzo Koch, dal 1960 al 1975, sguinzagliò all’estero decine di funzionari perché si formassero: voleva che conoscessero il mondo e le istituzioni. «È indubbio che egli abbia portato l’attività della Banca d’Italia a un grado di estensione, incisività, prestigio e potere senza precedenti», avrebbe sottolineato più avanti Mario Monti, da rettore della Bocconi.

Il connubio tra etica ed economia non era per nonno Guido un esercizio di retorica, ma un comportamento quotidiano. Stava nella sobrietà del linguaggio e dei costumi, nella comunicazione fatta anche di silenzi e raccoglimento, nella responsabilità praticata in ogni gesto, nella gioia delle piccole cose, come i pranzi domenicali nella casa di campagna con la bisnonna, le zie, i cugini, rallegrati dall’arrivo puntuale delle pastarelle e poi dalla visione, tutti insieme, dei film di Totò.

Sedeva spesso con noi a tavola un prete, che io consideravo il parroco di casa. Anni dopo sarebbe stato Papa Francesco durante un’udienza privata a svelarmi il nome di quel prelato: si trattava di Paolo VI, Papa Montini, la cui famiglia era legata da un’antica amicizia a quella di mio nonno.

Negli Anni di Piombo, in una Roma resa buia dall’omicidio di Aldo Moro, il dottor Carli mal sopportava l’obbligo della scorta e tanto protestò che alla fine ottenne che gli fosse tolta. «Se devo saltare in aria – diceva – perché dovrei far morire con me altre persone?». E mentre io giocavo con i finestrini spessi, perché la macchina era blindata, l’autista storico, Maurizio, mi raccontò che rifiutava categoricamente anche il lampeggiante. «Non voglio che le persone mi facciano le corna quando passo», chiosava.

Oggi posso dire che nonno era un uomo all’antica, ma anche straordinariamente moderno. Quando mi iscrissero nello storico liceo classico Mamiani, all’inizio per qualche mese fui presa in giro perché non mi facevo le canne e non sempre partecipavo alle assemblee studentesche. Almeno una volta finii tutta vestita nella fontana in cortile.

All’epoca non ci si lamentava, ma il dottor Carli sapeva cogliere il malessere senza bisogno di parole. «Essere diversi o considerati tali ti dà solo più forza. La forza delle tue idee», mi disse un giorno. «Vuoi essere un soldato semplice o un condottiero?». Una frase che ho ripetuto spesso a mio figlio, Guido jr.

Per i nostri incontri più ufficiali, presi l’abitudine di chiedere appuntamento nel suo ufficio in via dei Due Macelli, attraverso la mitica signora Berni, tanto minuta quanto energica. Assistevo in silenzio alle telefonate più disparate, una vera e propria scuola di vita. Un valzer incredibile di voci, che soltanto in seguito avrei saputo associare ai nomi.

Come Carlo Azeglio Ciampi, Eugenio Scalfari, con cui nel 1977 pubblicò “Intervista sul capitalismo”, e Gianni Agnelli, di cui fu il successore alla presidenza di Confindustria. Con l’Avvocato condivideva lo sguardo internazionale, l’impegno per la formazione di classi dirigenti illuminate e anche, devo ammetterlo, il fascino esercitato sulle donne.

Una sintonia grazie alla quale, nel 1974, nacque la Luiss, di cui nonno Guido diventò presidente, con Giovanni Nocco direttore amministrativo. Un collaboratore prezioso, quasi una sua emanazione, volata in cielo troppo presto.

Da ventenne, amavo provocarlo per capire quali sarebbero state le sue reazioni. «Nonno, ma Andreotti che tipo è?», gli chiesi dopo che fu nominato ministro del Tesoro, nel 1989. «È una persona perbene, che si circonda di persone sbagliate», rispondeva sincero. «Dottor Carli, se andassi al concorso per Miss Italia?», lo incalzai dopo essere stata nominata Miss Roma. Lui, come faceva sempre, mi disse: «E perché no?». Il non negarmi mai niente era il suo modo per responsabilizzarmi. Infatti non andai.

In aeroporto avrebbe potuto saltare le code, ma si metteva in fila con tutti gli altri. Era spesso destinatario di applausi spontanei da parte degli italiani, come mi avrebbe raccontato in seguito il più fidato tra i suoi autisti. Sempre lui, Maurizio, mi avrebbe confessato che quando il dottor Carli discuteva con nonna Maria e usciva, mentre noi pensavamo che restasse a digiuno, loro due se ne andavano a mangiare le pappardelle al ragù a casa di lui.

La notte della firma del Trattato di Maastricht, il 7 febbraio 1992, aspettai ansiosa le prime edizioni dei giornali all’edicola di Piazza Colonna. I telefoni cellulari erano ancora una rarità e un minuto di conversazione con l’estero costava più di duemila lire. Mi informai con la signora Berni dei tempi del rientro del nonno e lo attesi in camera, ai piedi del letto come quando ero piccola.

Mentre si toglieva il pesante cappotto verde, ché a Maastricht aveva trovato un tempo inclemente, mi disse «la moneta unica è un’opportunità straordinaria, per te, per i figli che verranno, per le future generazioni».

Era stanco e provato dal negoziato, ma tornava vittorioso: era riuscito a strappare la celebre clausola che consentiva agli Stati di impegnarsi in un percorso di avvicinamento tendenziale alla soglia obiettivo del rapporto debito-Pil (60%), sventando i parametri rigidi che chiedevano i tedeschi.

Credeva autenticamente nella portata rivoluzionaria di quell’accordo: «Ci costerà dei sacrifici, è vero, ma l’Italia non può rimanere fuori dalla moneta unica».

«Nell’analisi di ciò che è accaduto a Maastricht e di ciò che sta accadendo oggi – scrisse qualche tempo dopo nel libro “Cinquant’anni di vita italiana”, in collaborazione con Paolo Peluffola posta in gioco deve essere nella mente di chiunque, anche dei cittadini europei, dal momento che la grande riforma del potere avviata dal Trattato significa anche una riduzione del potere dei Governi nazionali, alla quale corrisponde un accrescimento del potere decisionale dei singoli cittadini».

Ormai ero vicina ai trent’anni. Capii perfettamente che mio nonno sognava di consegnare ai posteri un’Italia davvero europea, recuperando gli ideali già espressi da Luigi Einaudi. «Il nostro interesse di lungo periodo – sottolineò con straordinaria luciditàè la costruzione di una federazione europea basata sul principio dello Stato “minimo”, tenuta unita da una politica monetaria, da una politica estera e da una Difesa unitaria. Sarebbero gli Stati europei, singolarmente, in condizioni di resistere agli urti che provengono da un mondo esterno che cade in frantumi?».

Una domanda che nel 2023, dopo la pandemia, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e la nuova guerra tra Israele e Palestina, suona profetica. Mio nonno immaginava un’Europa madre provvidenziale e non matrigna, propulsore di crescita e non di austerità, l’Europa dei cittadini e non dei tecnocrati.

Per questo tremava, come mi raccontò, mentre apponeva la sua firma sul Trattato. Nel 2020 David Sassoli avrebbe ripreso questo aneddoto e commentato: «Quella mano tremava nello sforzo di tenere ancorato a tutti i costi un Paese al suo futuro. Per dare a tutti noi una speranza».

Negli stessi mesi in cui a Maastricht si provava a costruire una nuova Europa, l’Italia veniva travolta da Mani Pulite. «In fondo – rifletteva Carli – Tangentopoli non è che un’imprevista opera di disinflazione di un’economia drogata, un completamento inconsapevole del Trattato. Si è all’improvviso sollevato un velo su un groviglio di oneri occulti che pesavano su interi settori dell’economia italiana».

Poco più di un anno dopo, ricevetti una telefonata. «Sei la mia nipote prediletta», mi sussurrò. Tre giorni dopo, il 23 aprile del 1993 a Spoleto il dottor Carli non arrivò mai ad una riunione dove era atteso. Fu un addio del tutto inaspettato e precoce. Avremmo dovuto dirci ancora tante cose.

L’ultimo bacio che gli diedi fu anche il primo, alla Camera ardente allestita in viale Pola alla Luiss Guido Carli. Dopo la sua scomparsa, giurai a me stessa che il suo lascito non sarebbe rimasto privilegio di pochi, ma sarebbe diventato patrimonio collettivo. Per questo sono nate la Fondazione e il Premio Guido Carli.

A trent’anni dalla sua morte, lo scorso 23 aprile, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha riconosciuto in mio nonno uno «statista illuminato» e nella sua lezione «una bussola fondamentale per orientare il nostro Paese nella vicenda economica globale» e «una eredità preziosa, di tutela dell’interesse del bene collettivo».

Il nostro fare memoria è continuare a trasmettere il suo messaggio di fiducia nelle «forze rigogliose» del Paese. Perché «la speranza – mi sembra di vederlo ancora accanto a me a ripeterlo – è sempre un rischio da correre»

*Presidente della Fondazione Carli

2 Gennaio 2024

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