La rubrica

Bambini social, l’antropologa Veronica Barassi: “Non si tratta solo di privacy, ma di diritti e libertà individuali”

Anche tramite i social, lasciamo tracce ovunque online, e quelle tracce diventano dati. La professoressa dell'Università di San Gallo ha scritto "I figli dell'algoritmo", ha messo al centro la relazione tra dato-consumatore-libertà del cittadino. La rubrica dell'Unità che raccoglie osservazioni e pareri di esperti, artisti, professionisti: "Bambini social – Un giorno questo like sarà tuo"

Tecnologia - di Antonio Lamorte

7 Dicembre 2023 alle 17:19

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FOTO DA PIXABAY (GERALT)
FOTO DA PIXABAY (GERALT)

Lasciamo tracce dappertutto online, e quelle tracce diventano dati. Con i bambini, neonati e neonate, succede dalla nascita. Non è una questione di privacy, non soltanto almeno. Quando ha cominciato a incontrare altri genitori, tutti con lo smartphone in mano compresa lei, Veronica Barassi si è chiesta che fine facessero i dati dei figli: “Quanti ne stavamo producendo e di che tipo? Stavamo davvero creando la prima generazione di bambini datificati fin da prima della loro nascita?”. Ha scritto I figli dell’algoritmo. Sorvegliati, tracciati, profilati dalla nascita, Luiss University Press, Roma 2021.

Abbiamo raccolto la sua voce per il terzo contributo della rubrica “Bambini social – Un giorno questo like sarà tuo”, un dibattito sullo sharenting de L’Unità.it.

Di solito non posta immagini delle figlie sui social, quando succede di solito le bambine sono di spalle. “Anche se so che esistono possibilità di riconoscere le persone attraverso il corpo”. Una scelta condivisa con il marito dall’antropologa Veronica Barassi, professoressa ordinaria di Scienze della Comunicazione presso la Scuola di scienze umane e sociali all’Università di San Gallo, già alla Goldsmith University di Londra. “Abbiamo deciso che non stava a noi creare un profilo digitale per le bambine. Non si tratta più soltanto di questione di privacy ma più che altro di diritti”. Per scrivere I figli dell’algoritmo ha seguito due binari: quello più strettamente tecnico, lo studio dei processi di datificazione nell’ambito del capitalismo della sorveglianza, e quello della ricerca antropologica, con interviste e incontri con altri genitori. Ha cominciato a lavorare a un progetto sul tema nel 2014, “quando praticamente non esisteva un livello di consapevolezza”. Il caso Cambridge Analytica prima, nel 2018, e lo sprint delle tecnologie durante la pandemia da covid-19 hanno portato a una presa di coscienza collettiva maggiore.

“Stiamo attraversando e siamo parte di una trasformazione culturale in cui si utilizzano sempre più sistemi che processano enormi quantità di dati, provenienti da tantissimi contesti diversi. Ciò che mi interessa rispetto al concetto di privacy è come i dati dei consumatori vengono utilizzati e come incidono sui diritti, come potrebbero essere utilizzati per prendere decisioni sulla mia vita, la relazione tra dato-consumatore-libertà del cittadino. Per esempio nella scelta per un posto di lavoro, informazioni sulla salute, l’assicurazione e il conto in baca, i processi di analisi di polizia predittiva. Pensiamo all’immigrazione: ci sono governi che utilizzano la profilazione dei social media per concedere o meno l’ingresso nel Paese. E al ruolo dei data brokers e dei sistemi di intelligenza artificiale, emerso negli ultimi decenni, che prendono dati decriptandoli”.

Questa trasformazione è più visibile sui bambini perché i contenuti che li riguardano vengono prodotti e condivisi da altri, e loro non hanno davvero modo di intervenire. Può suonare distopico ma: la targhetizzazione dei contenuti rischia di incanalare le vite delle persone in pattern già predefiniti e dettati dagli algoritmi. Come si legge nel saggio, sono almeno quattro le tipologie di dati raccolti che riguardano i bambini: quelli attraverso l’Internet delle Cose e gli assistenti virtuali, quelli tramite scuole e piattaforme online, quelli che riguardano la salute, quelli raccolti dai social media. Di quest’ultima fanno parte i contenuti condivisi dagli adulti e le app su misura dei bambini come Messenger Kids.

Barassi paragona il tema a quello del cambiamento climatico: “Ci sono tante cose che possiamo fare però le dobbiamo fare tutti insieme. L’Unione Europea sta facendo qualcosa. Quando parlo di impegno a livello individuale parlo di prese di posizione, di un dibattito riflessivo che coinvolga le scuole, gli ospedali per esempio, dove queste tecnologie vengono usate senza alcuna osservazione critica”. Si legge nel suo libro: “Mi sono accorta che il problema stava proprio in quella parola, privacy, e nell’approccio occidentale e individualista alle nostre leggi, che scaricano gran parte della responsabilità sui genitori, quando invece i genitori raramente hanno scelta”.

“Parliamo anche di tecnologie che vengono proposte e offerte al pubblico anche prima di essere sufficientemente testate. L’abbiamo visto con l’Intelligenza Artificiale: con Sam Altman che va al Congresso degli Stati Uniti chiedendo di essere regolamentato”. Un dato: secondo un’indagine della società di cybersecurity Imperva, la partecipazione degli esseri umani alle attività in rete nel 2022 è stata la più bassa di sempre, quasi la metà del traffico nel web (47,4%) è stato prodotto da bot. Barassi riconosce: “Non siamo comunque super radicali con mio marito: in alcune occasioni, come feste o a scuola, ci è stata chiesta la possibilità di postare delle immagini, di solito concediamo l’autorizzazione. Essere troppo radicali può implicare anche emarginazione, isolamento da parte degli altri per le bambine”.

Gli altri interventi nel dibattito Bambini social – Un giorno questo like sarà tuo” su L’Unità.it. 

7 Dicembre 2023

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