L'eterno rinvio
Patto di stabilità, è muro contro muro
L’Italia ha un motivo in più per scalpitare e minacciare di non firmare l’eventuale testo: l’assenza dello scorporo dal computo del deficit delle spese per la riconversione ecologica e per quella digitale. Senza accordo un vertice straordinario non sarebbe inutile ma controproducente.
Politica - di David Romoli
L’ipotesi di un vertice straordinario di Ecofin che avrebbe dovuto verificare l’esistenza di un testo di massima concordato sulla riforma del Patto di Stabilità, per poi limarlo e licenziarlo nel vertice già in agenda per l’8 dicembre, non è proprio sfumata.
Però è slittata sino al limite massimo: non il 23 novembre ma il 7 dicembre a cena. Insomma, il limite massimo. Il senso dello slittamento è evidente: l’accordo su quel testo di massima non c’è e il problema principale si chiama Italia.
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In realtà tutti i 12 Paesi con livelli di deficit sensibilmente superiori al tetto del 3% del Pil puntano i piedi contro l’ipotesi, imposta dalla Germania, di fissare una zona cuscinetto di sicurezza al di sotto di quel tetto: nel concreto significherebbe, chiacchiere a parte, portare il parametro dal 3 al 2%.
Ma l’Italia ha un motivo in più per scalpitare e minacciare di non firmare l’eventuale testo: l’assenza dello scorporo dal computo del deficit delle spese per la riconversione ecologica e per quella digitale. Senza accordo un vertice straordinario non sarebbe inutile ma controproducente.
Meglio procedere con gli incontri bilaterali tra i Paesi chiave: come quello di oggi a Parigi tra Giorgetti e l’omologo francese Le Maire o come quello di domani a Berlino dello stesso ministro italiano dell’Economia, accompagnato per l’occasione dalla stessa premier. Trattativa difficile e ancora in salita sulla quale incideranno i molti altri dossier aperti sul caso Italia a Bruxelles.
Il primo è il parere sulla legge di bilancio della Commissione, che arriverà oggi stesso. Sarà positivo e senza richieste di intervento. Ma sarà anche accompagnato da una raccomandazione, probabilmente molto insistita, sulla necessità di intervenire subito su debito e deficit. In un quadro del genere pensare a emendamenti di maggioranza alla manovra sarebbe surreale.
Domani scade il termine e di emendamenti non ce ne saranno. Qualche modifica sarà inserita nella fase finale, con il classico maxiemendamento ma sarà robetta: Giorgetti ha già chiarito che oltre i 100 milioni di euro non si potrà andare. Domani però dovrebbe arrivare al pettine anche un nodo ben più aggrovigliato: alla Camera è in calendario il dibattito sulla ratifica del Mes.
Il governo è ancora propenso a rinviare ancora l’appuntamento, adoperando come alibi i decreti in scadenza. L’alternativa, improbabile, sarebbe quella di cavarsela approvando la riforma ma con l’impegno a non utilizzare mai il Mes. Una presa in giro coi fiocchi, dal momento che non si vede come un governo possa proibire decisioni dei governi a venire.
L’ennesimo rinvio peserà sulle trattative centrali, quella sul Patto e quella sulle oltre 140 modifiche al Pnrr chieste da Roma. Così come peserà il contenzioso, arrivato ai ferri corti, sulle concessioni balneari. L’Italia, per l’anno prossimo, vuole mettere a gara solo le spiagge pubbliche senza toccare le concessioni già assegnate.
L’Europa è pronta alla procedura d’infrazione. In un labirinto simile la premier italiana sembrerebbe non avere margini di manovra. Non è così perché oggi nessuno vuole che un Paese chiave come l’Italia precipiti in una crisi oppure nell’instabilità. Proprio ieri la Commissione ha deciso si accogliere una delle richieste avanzate soprattutto dall’Italia e ha prolungato fino al prossimo giugno parte delle misure sugli aiuti di Stato introdotte per la crisi Covid e la premier esulta.
Ma soprattutto l’Italia arriva all’appuntamento decisivo con alle spalle la promozione delle agenzie di rating, inclusa la severa Moody’s: invece del temuto downgrade la previsione è più rosea del previsto, con l’outlook che passa da negativo a stabile. Nessuno, insomma, ha interesse a mettere l’Italia troppo alle strette.
Ma un dogma, destinato a mettere il governo comunque in enorme difficoltà, resterà fisso: le entrate non dovranno superare le spese. Costi quel che costi e costerà parecchio.