Il vertice Ecofin

Patto di stabilità, il governo Meloni si mette di traverso: “Se la proposta non ci soddisfa non la firmiamo”

Madrid e Parigi parlano di accordo sui punti chiave e di un possibile compromesso, ma il nostro governo gela tutti: “Se la proposta non ci soddisfa non la firmiamo”

Politica - di David Romoli

10 Novembre 2023 alle 12:30

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Il ministro Giorgetti e la premier Meloni
Il ministro Giorgetti e la premier Meloni

L’accordo sul nuovo Patto di Stabilità ancora non c’è. La Spagna, presidenza di turno del Consiglio Ue, aveva annunciato la presentazione di una proposta definita nel vertice di Ecofin di ieri, però già dalla vigilia era chiaro che l’impegno non sarebbe stato mantenuto. I ministri delle Finanze sono però usciti dal vertice con una certa dose di ottimismo.

“Come i pellegrini nel cammino di Santiago stiamo iniziando a vedere la meta. Abbiamo messo sul tavolo una proposta di compromesso e c’è accordo sugli elementi chiave, i meccanismi delle nuove regole e la necessità di avere disciplina ma anche di assicurare controciclicità”. Messa così, la possibile mediazione appare vaghissima e nebbiosa. Ma che ci sia davvero è certo.

Sia la Spagna che soprattutto Macron ci lavorano intensamente da giorni ed è probabile che, se l’intesa prenderà la rincorsa, Ecofin convocherà un nuovo vertice eccezionale per la fine del mese prima di quello in programma per l’8 dicembre, in modo da rendere davvero conclusiva quella data.

Proprio l’Italia però gela un po’ gli entusiasmi giocando subito una carta molto pesante: “Se l’accordo non ci soddisferà non lo firmeremo. Meglio allora tornare alle vecchie regole”. È uno strumento di pressione, o di ricatto, decisamente forte e l’Italia ha già dimostrato di essere disposta a bloccare anche da sola riforme importanti negando la ratifica delle riforma del Mes e il governo è già deciso a rinviare ancora quando, tra qualche giorno, la questione tornerà in Parlamento.

Alle vecchie regole nessuno vuole tornare ma senza il sì di Roma sarà inevitabile resuscitarle il primo gennaio 2024. L’ipotesi di prorogare ulteriormente la sospensione del Patto, decisa nel 2020 in seguito al Covid, quella sulla quale puntava l’Italia, è stata bocciata senza appello dalla Commissione europea. Anche il tentativo di mettere a punto qualche soluzione ponte per evitare il ripristino delle vecchie regole in caso di mancato accordo entro il 31 dicembre di quest’anno è fallito. Il commissario Gentiloni è stato definitivo: “Se si raggiunge un accordo ci sarà una fase di assestamento, altrimenti tornano in vigore le regole precedenti e il tempo non è illimitato”.

Per il governo, peraltro, la questione è quasi di vita o di morte. A bloccare la riforma del Patto sono le questioni poste, su posizioni antitetiche, dalla stessa Italia e dalla Germania. Roma insiste perché le spese per gli investimenti strategici, cioè per la riconversione ecologica e per quella digitale, siano eliminate dal calcolo del deficit, così come quelle per il sostegno all’Ucraina.

La Germania e i Paesi “frugali” si sono sin qui sempre opposti ma la proposta franco-spagnola, della quale Macron ha discusso direttamente con il falco di Berlino, il ministro delle Finanze Lindner, qualcosa invece concederebbe. Non lo scomputo secco però e dunque i dettagli della proposta, ancora oggetto di trattativa, diventano fondamentali per definire la reale portata dell’apertura.

La Germania e il Paesi del nord martellano a loro volta perché siano fissati con precisione i tempi e le misure del rientro nei parametri sul debito, che non dovrebbe superare il 60% del Pil. Sin dall’inizio della trattativa puntano su un rientro annuo dell’1%. Il compromesso confermerebbe la richiesta tedesca, posticipandola però rispetto al rientro nei parametri sul deficit, non oltre il 3% del Pil.

Sarebbe una boccata d’ossigeno, soprattutto perché ci sarebbe tempo di trattare margini di flessibilità sul debito ma pagati a caro prezzo. L’Italia prevedeva di rientrare nel parametro sul deficit nel 2025, ma la legge di bilancio 2024 ha posticipato di un anno. Però anche quella previsione è tutt’altro che certa perché si fonda in buona parte sulla crescita dell’1,2% fissata per l’anno prossimo ed è un obiettivo che tutti gli analisti, ultimo appena due giorni fa il Fmi, considerano del tutto fuori portata.

In soldoni, la mediazione comporterebbe politiche draconiane sul bilancio per assicurare intanto un tempestivo rientro nei parametri del deficit. Significa, in concreto, che il governo Meloni non avrebbe nei prossimi anni un soldo da spendere non solo per le nuove misure sempre promesse e puntualmente rinviate ma anche per la conferma del taglio del cuneo fiscale per il 2025.

Quello che l’Italia teme è un accordo che dia soddisfazione parziale e più formale che sostanziale alla propria richiesta, in cambio di vincoli invece molto pesanti sul deficit prima e sul debito poi. “In questo caso sarebbe meglio tornare al vecchio patto”, dicono dal Mef ed è la posizione da sempre assunta dagli europarlamentari della Lega. Perché è vero che le vecchie regole sono più rigide ma è anche vero, come notavano qualche tempo fa i leghisti di Strasburgo che “nessuno però le ha mai rispettate”.

Quella dell’Italia è certamente una pressione volta a ottenere condizioni migliori, ma non è affatto escluso che Giorgetti e Meloni considerino davvero preferibile avere regole più severe ma sulle quali si finisce sempre per trattare margini di flessibilità piuttosto che nuovi vincoli meno severi ma molto più rigidi.

10 Novembre 2023

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