La ratifica

Meloni sul filo, il Mes spacca la destra

Soddisfare le richieste di Salvini e Tajani andrebbe nella direzione opposta sia sul piano della spesa che su quello simbolico, politicamente altrettanto importante. Così la premier è costretta a cercare a tentoni la via d’uscita da un vero labirinto.

Politica - di David Romoli

27 Ottobre 2023 alle 12:30 - Ultimo agg. 27 Ottobre 2023 alle 18:13

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Meloni sul filo, il Mes spacca la destra

“Di Mes al Consiglio europeo non si parlerà”, aveva assicurato Giorgia Meloni e in effetti non se ne è parlato né era previsto che se ne parlasse. La sede in cui il problema verrà invece messo in campo con tutta l’urgenza del caso, che a due mesi dal 31 dicembre è ormai pressante oggi, all’Eurosummit. Il presidente dell’Eurogruppo Pascal Donohe chiederà alla premier italiana un impegno chiaro, quello che non era riuscito a ottenere dal ministro Giorgetti.

Ripeterà quanto scritto due giorni fa nella lettera al presidente del Consiglio europeo Charles Michel: “Negli ultimi mesi abbiamo ricevuto aggiornamenti regolari sull’iter parlamentare in corso per la ratifica del Trattato del Mes in Italia, e attendiamo con impazienza la sua conclusione il più presto possibile”. Però lo farà con minor diplomazia e toni, se non più ruvidi, ancora più espliciti. Anche se quell’ “attendiamo con impazienza” è già più che eloquente.

Un primo risultato la lettera di Donohe lo ha raggiunto subito. La Camera ha calendarizzato il dibattito sulla ratifica della riforma del Mes. Sarà dal 20 al 24 novembre e non ci saranno altre occasioni. La a dir poco sofferta decisione dovrà essere presa in quell’occasione. Il ministro dell’Economia e quello degli Esteri, leader di FI, sono decisi a firmare. Non si può fare altro e lo sanno. La premier no. Il nodo non lo ha sciolto e non lo farà neppure domani. Sa bene di non avere molte alternative. Donohe concede pochissimo, anche solo per salvare la faccia. Una frasetta sulla riforma del Mes come “preludio a un’Unione bancaria più resiliente”.

Vaghissime e non impegnative, sono parole a migliaia di km di distanza dalla richiesta italiana, quella cioè di fare passi avanti tangibili verso l’unione bancaria in cambio della sospirata firma. La Germania non vuole saperne e più di questo il presidente dell’Eurogruppo non può dire. Anche lo spiraglio sul poter discutere in futuro, certo dopo la ratifica, “ruolo e strumenti del Mes” è davvero strettissimo, troppo anche per poter fingere di aver ottenuto una mezza vittoria.

Per chiudere la partita senza uscirne palesemente piegata Giorgia Meloni ha bisogno di qualcosa in più. Sempre solo parole: lei per prima sa che con il veto della Germania di mezzo non è possibile raggiungere alcun esito tangibile. Quelle parole dovrebbero però essere almeno un po’ meno vaghe e accompagnate da qualche impegno sul fronte intrecciato della riforma del patto di stabilità: un’apertura sulla possibilità di prorogarne la sospensione se non si troverà un’intesa sulle nuove regole entro la fine dell’anno e soprattutto sullo scorporo delle spese strategiche e militari dal conto dei parametri.

In ogni caso, se anche facesse promesse che quasi certamente non farà, Giorgia Meloni non potrebbe parlare a nome dell’intera maggioranza. Il suo partito e quello azzurro la seguirebbero. La Lega non è affatto detto e, nonostante Giorgetti, al momento è ancora attestata sul no alla ratifica. La quale passerebbe anche senza i voti di Salvini, certo, dal momento che quei voti verrebbero ampiamente compensati da quelli del Pd e del Terzo Polo. Ma Giorgia Meloni non ha alcuna intenzione di votare una riforma contro la quale si è sempre schierata a braccetto col Pd ma contro la Lega e i 5S. Per la maggioranza la spaccatura su un fronte così nevralgico sarebbe un colpo molto duro anche se la Lega scegliesse la formula più morbida, non il voto contrario ma l’astensione dal voto.

La nota dolente, per l’inquilina di Chigi, è che, al contrario, Salvini ha tutto l’interesse a distinguersi bocciando la ratifica o non votando “per senso di responsabilità”. Rivendicherebbe la coerenza e metterebbe l’alleata/rivale in difficoltà proprio sul piano che Meloni ha sempre adoperato come garanzia della propria serietà, quello appunto della coerenza. Per convincere la Lega, la premier dovrà sia imporsi che trattare e la trattativa non potrà che riguardare la legge di bilancio. Al momento quella legge registra non una sconfitta ma una disfatta del leader leghista. il quale ha già detto forte e chiaro ai suoi che “così quota 104 non si può accettare” e si prepara a dare battaglia.

“La legge di Bilancio, al di là delle promesse elettorali di ‘cancellazione della legge Fornero, mai avvenuta – commenta il dem Cesare Damiano, presidente dell’Associazione Lavoro&Welfare ed ex Ministro del Lavoro – va nella direzione opposta: in pensione si andrà più tardi e con assegni più magri”. Non viene neanche mantenuto lo “status quo. Vale per Quota 103, per l’Ape sociale e per Opzione Donna ma, cosa più grave, vale soprattutto per i giovani”.

“La prima edizione della “bozza” che sta circolando, in attesa di diventare ufficiale, – prosegue – ha alzato la soglia attualmente prevista per i giovani di 2,8 volte la pensione minima, che equivale a circa 1.400 euro lordi mensili. Tale soglia è l’importo dell’assegno previdenziale che i giovani, ai quali viene applicato il regime interamente contributivo, debbono conseguire necessariamente per poter andare in pensione a partire dai 64 anni. Soglia contestata da tutti perché difficilmente raggiungibile dalla generazione entrata al lavoro a partire dal primo gennaio del 1996. Generazione caratterizzata dal lavoro discontinuo e precario, non sempre full time, sottopagato e a bassa contribuzione. Per questo veniva chiesto a gran voce, a partire dai sindacati, di abbassare la soglia a 1,5 o, addirittura, di cancellarla. Cosa fa invece il Governo? La alza a 3,3, volte, il che equivale a oltre 1600 euro lordi mensili come soglia da raggiungere per poter andare in pensione anticipata a 64 anni. Di male in peggio. Adesso circola una seconda “bozza” che tenta di aggiustare maldestramente il tiro. La soglia di 2,8 viene alzata a 3,0 e non più a 3,3. Un grande sforzo davvero. Per le lavoratrici rimane a 2,8 se hanno un figlio e a 2,6 se ne hanno due. Un copia incolla della bruttura fatta l’anno scorso con Opzione Donna. Uno schiaffo – conclude – in pieno viso alle generazioni lavorativamente e previdenzialmente svantaggiate dei più giovani. Una scelta molto grave, la peggiore di questo pasticcio pensionistico che ci trascina in una sorta di incomprensibile ottovolante previdenziale”.

Un vero disastro sul quale Salvini punta i piedi, non meno dell’azzurro Tajani. Le sue richieste non sono neppure state prese in considerazione, in compenso sono spuntate scelte che Fi vuole a tutti i costi se non proprio cancellare almeno ammorbidire molto. Gli azzurri insistono sull’aumento delle pensioni minime almeno sino da 600 a 650 euro e reclamano un passo indietro sulla cedolare secca e un calmiere sulla tassa per gli affitti brevi: dall’attuale 21% la manovra la porta al 26%, per Tajani dovrebbe fermarsi al 23%. In tempi normali non sarebbero richieste troppo esose. Un primo cambiamento c’è già stato ieri: è stato abbassato il tetto necessario per l’uscita anticipata contributiva e che nella bozza precedente era stato innalzato sino a 1400 euro e ora torna intorno ai 1200.

Per Salvini non può bastare ma qui Giorgetti e Meloni sentono sul collo il fiato della Ue, del Fmi, delle agenzie di rating, tutti concordi nel chiedere interventi molto più drastici per abbassare il debito. Soddisfare le richieste di Salvini e Tajani andrebbe nella direzione opposta sia sul piano della spesa che su quello simbolico, politicamente altrettanto importante. Così la premier è costretta a cercare a tentoni la via d’uscita da un vero labirinto.

27 Ottobre 2023

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