La guerra in Medioriente
“Oltre 3mila bambini uccisi in tre settimane non è legittima difesa ma genocidio”, parla Padre Felice Scalia
«Da anni assistiamo alla militarizzazione strategica dell’odio come seme di altre guerre. Tremiladuecento bambini palestinesi ammazzati in tre settimane non è “legittima difesa”. È l’inizio di un genocidio»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Un grande gesuita interloquisce con l’impegnata intervista di Raniero La Valle a l’Unità. Sulla guerra a Gaza, l’ebraismo, il difficile ma indispensabile dialogo interreligioso. Padre Felice Scalia ha insegnato alla facoltà teologica dell’Italia Meridionale e poi all’Istituto Superiore di Scienze Umane e Religiose di Messina. È autore di numerosi saggi, tra i quali ricordiamo il più recente Il Vangelo disatteso. Cosa abbiamo perso di vista nel messaggio di Gesù (Paoline Editoriale Libri, 2023).
In una intervista a questo giornale, Raniero La Valle ha affermato che tra le tragedie che si stanno consumando in questi giorni, da un mese, a Gaza, c’è anche la tragedia della religione ebraica, che con lo Stato d’Israele, messo in pericolo dalla propria azione, rischia di essere identificata.
La religione ebraica ha nei secoli diverse sfaccettature. Forse la più importante è che l’Eloim, il Dio che chiama Abramo ad “uscire dalla sua terra” per essere “benedizione di tutte le genti”, invita quest’uomo, ricco ed infelice, ad iniziare un cammino inedito: fare esperienza di un contatto col divino che sia apertura alla speranza di un futuro “altro” per sé e per l’umanità. Unica condizione: non mischiarsi agli altri popoli, essere “oltre” la loro logica, il loro modus vivendi. C’è dunque nel Dna dell’ebraismo una sorta di messianismo il cui contenuto non si rivela subito, ma camminando lungo la storia con il “suo” Dio.
Vale a dire?
L’ebraismo è una religione di nomadi alla ricerca (mai al possesso) della “Terra promessa” intesa non tanto come luogo geografico ma luogo teologico: l’ebreo cammina per accostarsi al volto di Dio ed alla intima natura di se stesso. Il Dio degli ebrei vuole la vita, non la morte, la libertà, non la schiavitù, abolisce i sacrifici dei primogeniti, vuole la pace. Muoversi in questo orizzonte rende pienamente umano l’uomo.
Il disperato Abramo accetta la proposta, ma lui per primo, ed altri dopo di lui, sono sempre in bilico tra il custodire la specificità della loro fede e l’accogliere lo stile delle “genti”, tra l’adorare il Dio della vita o piegarsi come tutti, ad un idolo “frutto di mani d’uomo”.
Il vero ebraismo non lo si trova dunque nella storia di questa manciata di tribù diventati popolo, ma nel filo rosso dei suoi profeti che sempre spingono a quell’ “oltre”, a quel “diversamente” dell’evento fondativo. Ecco la risposta alla domanda. Dopo la Shoah, nella vicenda complessa del passaggio da un protettorato inglese ad uno “Stato di Israele”, una linea di pensiero voleva adottare un modello tipico delle “genti” (sicurezza popolare assicurata da uno stato forte, ricco, invincibile, dentro i confini della biblica Terra promessa), l’altra optava per una convivenza pacifica di ebrei e palestinesi (i biblici “filistei”) secondo la formula “due stati per due popoli”. Quest’ultima era la linea di Martin Buber e poi di Yitzhak Rabin, presidente israeliano ucciso il 4 novembre del 1995. Netanyahu, identificando l’ebraismo con la sua storia travagliata (e spesso infedele a se stessa), e affermando che lo Stato di Israele era uno stato confessionale esclusivo degli ebrei, creava una esclusione di creature umane diversamente credenti, una lotta di razze che non avrebbe potuto portare nulla di nuovo a favore della vita e della “benedizione per i popoli tutti”. In questo senso ha messo in pericolo non solo la sicurezza che voleva assicurare al popolo ma la stessa identità della religione. L’ebraismo di un Netanyahu, oggi alleato con gli ultraortodossi, diventa la strada per negare l’ebraismo nella sua essenza.
La Valle usa una parola forte nel definire ciò che le forze armate israeliane, su mandato politico, stanno perpetrando nella Striscia di Gaza. Quella parola terribile è genocidio.
Certamente quando si sentono parole come “soluzione definitiva”, “annientamento” di Hamas, “inesistenza del popolo palestinese” (sarebbe stato inventato da ingenui pacifisti europei), quando risuonano queste parole, difficile evitare l’idea che i capi militari ebraici stiano infliggendo ai palestinesi se non quello sterminio che hanno subito i loro padri, certamente qualcosa che molto gli si avvicina. Difficile catalogare come “effetto collaterale” lo sterminio di 3200 bambini palestinesi in tre settimane di guerra. Non giochiamo coi numeri; si tratta di bambini, futuro di una nazione. Hamas ne ha uccisi 40 (ed è osceno, assurdo) ma la reazione israeliana nella “Striscia” difficile chiamarla “legittima difesa”; è vendetta e inizio di programmato genocidio-sterminio di un popolo. La Valle distingue tra “genocidio” nell’uso comune del termine e genocidio così come definito nel 1948 dall’Onu nella “Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio”. Quel documento enumera tanto puntigliosamente i casi in cui il reato di genocidio prende forma, da sembrare il frutto di una allucinazione anticipatoria di ciò che stiamo verificando ai nostri giorni. Quando vuole l’uomo ragiona, ma non sempre vuole.
Dice La Valle: “Le religioni hanno bisogno di una continua presa di coscienza di se stesse, per interpretare le proprie pagine fondatrici in base alle esigenze dei tempi”.
Papa Giovanni XXIII fu criticato da tanta chiesa cattolica per avere indetto un Concilio Vaticano II (che bisogno c’è?) e soprattutto per avere scritto nella “Pacem in terris” che ogni guerra nei tempi moderni è soltanto pazzia. Bellum alienum est a ratione. Un Papa – dicevano – si deve preoccupare della vita eterna, non di politica, del cielo non della terra. Il mite Pontefice annotò nel suo diario una celebre frase: “Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che lo comprendiamo meglio”. Che è come dire: la storia e le situazioni storiche ci svelano la ricchezza e la profondità profetica di un Vangelo che risponde non ai problemi umani di 2000 anni fa ma a quelli di oggi. Camminando con la storia e guardandola con gli occhi di Cristo, scopriamo come affrontare le circostanze della vita perché diventino annunzio di salvezza possibile.
Credo che La Valle questo intendesse, e forse ben di più sottintende: non si è seguaci di Gesù di Nazareth se non si è capaci di “leggere i segni dei tempi”, cioè le chiamate di Dio in quel determinato periodo storico.
In una toccante lettera a tutta la Diocesi, il Cardinale Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme dei Latini, afferma tra l’altro: I bombardamenti su Gaza causeranno solo morte e non faranno che aumentare l’odio. Solo ponendo fine a decenni di occupazione, e alle sue tragiche conseguenze, e dando una chiara e sicura prospettiva nazionale al popolo palestinese che si potrà avviare un serio processo di pace.
Da anni assistiamo non solo allo scoppio di tante guerre, ma alla militarizzazione strategica dell’odio come seme di altre guerre. Popolazioni diverse, da secoli in pace nella loro diversità religiosa e culturale, vengono messe nella necessità di combattersi a vicenda. Abbiamo avuto un assaggio di questo ulteriore imbarbarimento dell’uomo, nelle guerre jugoslave ma oggi nessuno può dire che quanto succede nella striscia di Gaza creerà fratellanza tra ebrei e palestinesi. Ecco raggiunto l’obiettivo: fare vivere un popolo nella paura e nella insicurezza, sapere usare nei kibbutz vanga e kalashnikov, innaffiare i campi mentre si spara all’intruso. Come se questa si potesse chiamare vita umana. Il discorso che bisogna distinguere tra pace e vittoria (la pace esige giustizia e rispetto della dignità di ogni uomo, mentre la vittoria è assegnata a chi ammazza di più nel più breve tempo possibile) questo discorso non piace ai grandi presunti “padri della patria”, ai fabbricanti di armi e neppure ai “grandi” uomini di partito che stanno governando il mondo. Il Cardinale Pizzaballa, osa dire una verità che il nostro pensiero unico atlantista si guarda bene dall’esprimere. Questa verità gridata da Papa Francesco in questi giorni e da migliaia di giovani nelle strade europee e perfino statunitensi, è semplice nella sua complessità: “Solo ponendo fine a decenni di occupazione (…) e dando una chiara e sicura prospettiva nazionale al popolo palestinese, si potrà avviare un serio processo di pace”.
Scrive il cardinale Pizzaballa: “È sulla croce che Gesù ha vinto. Non con le armi, non con il potere politico, non con grandi mezzi, né imponendosi. La pace di cui parla non ha nulla a che fare con la vittoria sull’altro. Ha vinto il mondo, amandolo”. Padre Scalia, è la pace giusta, la pace nella giustizia, quella invocata da papa Francesco, per contrastare, per usare un’affermazione del pontefice, “la terza guerra mondiali a pezzi”, in atto?
Non ne vedo altra. Siamo ad un bivio epocale: abbiamo i mezzi per portare a termine questa corsa verso l’annullamento della vita sulla Terra, ed i mezzi per voltare pagina ed accorgerci che la vita, il futuro, il mantenimento del delicatissimo ecosistema, ancora per poco sono nelle nostre mani. La pace nel rispetto della Carta dei diritti dell’uomo (cioè della dignità di ogni uomo), la fratellanza e la collaborazione dei popoli per vivere e fare vivere, la benevolenza e l’amore, tutte queste cose oggi non sono un optional di anime belle ma un dovere assoluto di ogni benpensante. Non siamo nati per scannarci a vicenda e neppure per derubarci a vicenda, eppure su questi verbi abbiamo modellato la cosiddetta civiltà occidentale. La nostra generazione forse è chiamata ad un inizio di rivoluzione antropologica. Forse solo a dire che il “sistema” intero va cambiato nei suoi valori fondativi, perché ci porta difilato alla morte di tutto e di tutti. È vero, questo cambiamento esige secoli, sembra pazzesco e gode delle facili ironie del “pensiero unico”. Ma abbiamo altra alternativa? Credo di no. O la catastrofe assoluta o un inizio di novità assoluta, l’opzione vita.