L'ok al premierato

Chi è Franco Talò, il diplomatico scaricato da Meloni per lo scherzo telefonico

Per Giorgia è la “madre di tutte le riforme”. In realtà il testo licenziato all’unanimità è un colabrodo che provocherà un sacco di guai. E la falla principale sta proprio nella norma che dovrebbe garantire la stabilità.

Politica - di David Romoli

4 Novembre 2023 alle 14:00

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Il premierato di Giorgia meloni
Il premierato di Giorgia meloni

La “madre di tutte le riforme”, definizione non precisamente originale di Giorgia Meloni, è pronta, approvata all’unanimità dal cdm. Secondo la stessa premier e la ministra Casellati dovrebbe risolvere più o meno tutti i problemi istituzionali del Paese: l’assenza di stabilità, che origina un diluvio di guai, dall’impossibilità di progettare alla scarsa credibilità internazionale, i ribaltoni, proibiti per legge costituzionale, le “maggioranze arcobaleno” a sostegno dei governi tecnici: “Non saranno più possibili perché il premier potrà essere sostituito, solo una volta nel corso della legislatura, solo da un parlamentare e con la stessa maggioranza”.

E tutto, miracolo, “senza toccare le competenze del presidente della Repubblica, con i cui uffici c’è stata ovviamente un’interlocuzione. Salvo l’incarico al presidente del Consiglio”. Del quale s’incaricherà direttamente il popolo votante. In realtà anche la facoltà di nominare i senatori a vita scompare con gli stessi. Resteranno solo gli ex presidenti, anche se naturalmente i già nominati manterranno l’incarico. Piazzismo a parte, la riforma così come scritta oggi, è un colabrodo che provocherà solo confusione e problemi a non finire.

Probabilmente anche la piazzista in questione lo sa perfettamente. La falla principale è proprio quella norma toccasana che dovrebbe garantire la stabilità. Il premier eletto, recita la cervellotica formula, potrà sì essere sfiduciato e sostituito, però solo una volta, solo da un parlamentare della maggioranza sostenuto dalla stessa maggioranza, solo con l’impegno, solennizzato dalla sua costituzionalizzazione, a rispettare il programma.

Il potente premier, legittimato dal voto diretto, sarebbe in questo modo debole ostaggio della sua maggioranza. Al netto degli interrogativi inevasi: la maggioranza dovrebbe essere proprio la stessa o basterebbe il passo indietro di una forza, magari minore, per far saltare tutto? Difficile proibire per legge costituzionale l’eventuale allargamento della maggioranza stessa: non è che si può proibire ai parlamentari di votare o meno la fiducia a piacimento?

Il capo dello Stato potrebbe decidere di non procedere col secondo incarico o sarebbe costretto a tentare, vedendosi così sottratta la facoltà principale del presidente, cioè quella di sciogliere o meno le Camere? Il rispetto del programma, poi, è quasi una barzelletta, tanto che la premier stessa ammette che la formula non va presa alla lettera: “L’importante è che non ci sia contrasto col programma iniziale”. Maglie larghe, anzi larghissime.

Quando le chiedono perché non abbia scelto la formula più logica e lineare, nuove elezioni in caso di premier sfiduciato o dimesso, Meloni si barcamena piuttosto goffamente, offre una giustificazione abborracciata, “perché è sembrato che così ci siano più garanzie di stabilità”. Ammette francamente che “come è noto io preferivo la formula ‘simul simul’, con lo scioglimento delle Camere in caso di sfiducia del premier eletto”. Aggiunge palesemente speranzosa che comunque “l’iter parlamentare sarà lungo e il Parlamento potrà decidere di intervenire”.

Il quesito resta inevaso: perché non procedere subito. La risposta, tra le righe, la offre la ministra Casellati: “dunque mi auguro che nel dibattito parlamentare ci sarà il punto di caduta, perché da parte nostra c’è stato uno sforzo massimo. Eravamo partiti con l’elezione diretta del presidente della Repubblica, abbiamo abbassato bandierine per venire incontro”. Insomma la mano tesa all’opposizione, che certamente non si presterà c’è. Quando il tentativo si sarà dimostrato vano, probabilmente si modificherà la legge a colpi di emendamenti.

Sulla carta il Parlamento potrebbe anche tornare sulla scelta di lasciare nelle mani del presidente della Repubblica la nomina o revoca dei ministri. Lì però è improbabile che la maggioranza modifichi anche una virgola. Questione di sondaggi: gli italiani al ruolo di garanzia del capo dello Stato ci tengono, meglio non rischiare di irritarli. Del resto la concessione, sottolinea Meloni, nel concreto è poca cosa: “E’ molto difficile che un premier si veda bocciare dal presidente i ministri che propone e sono certa che se oggi andassi da Mattarella a dire che un ministro va sostituito non si opporrebbe”.

Il ginepraio della legge elettorale, invece, è rinviato al Parlamento. Il quale avrà parecchio da fare perché il paletto che impone un premio di maggioranza che porti i vincitori almeno al 55% non può darsi senza una soglia minima, senza la quale sarebbe necessario il ballottaggio e per la destra si sa che il doppio turno è quanto di più indigesto. Senza contare il particolare che rende impossibile il premio “su base nazionale” sbandierato dalla ministra al Senato, dove servirebbe un’ulteriore riforma costituzionale per rendere l’elezione dei senatori non più su base regionale.

Il giorno di grandi annunci non si limita alla riforma della Carta. Sulla carta, e solo su quella vede la luce anche il piano Mattei. Oddio, finalmente si sa di che si tratta? No. Però ci sono una cabina di regia e un’unità di missione, ci sono scadenze precise anche se non si sa ancora per far cosa, e obblighi di riferire al Parlamento, sempre su un oggetto fantasma. La premier assicura però che i registi non saranno pagati e si vedrà se è vero ma di certo il carrozzone destinato a occuparsi del nulla qualcosa costerà.

Nonostante il peso della materia oggetto della conferenza stampa finale, buona parte delle domande, soprattutto da parte dei giornali più importanti, verte sul caso scandalistico del giorno, lo scherzetto russo. Qui Meloni se la cava bene: “Alla fine della telefonata mi erano venuti dei dubbi su quella telefonata: insistevano troppo sul nazionalismo ucraino. Ho segnalato la questione all’ufficio diplomatico ed lì che c’è stata superficialità nel non procedere con gli accertamenti. Per questo stamattina l’ambasciatore Francesco Talò ha rassegnato le dimissioni”. Che sia la verità o si tratti di un provvidenziale capro espiatorio, comunque il caso, che serio non è mai stato, dovrebbe essere chiuso.

4 Novembre 2023

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