Opposizione sulle barricate
Il salario minimo affossato in Aula, la maggioranza rinvia in Commissione: muro della destra contro la proposta di legge
L’approdo a Montecitorio segna più una fine che un inizio: essendo una legge di spesa, non potrà più essere discussa quando tra pochi giorni sarà avviata la sessione di bilancio. Eppure con questa campagna Schlein ha incassato i primi successi...
Politica - di David Romoli
Può apparire prematuro tirare le somme dello scontro politico ingaggiato da tutte le opposizioni sul salario minimo a 9 euro lordi l’ora quando la proposta di legge, dopo una lunga serie di rinvii, dovrebbe arrivare in aula. In realtà il presunto arrivo della proposta nell’aula di Montecitorio è destinato a segnare più la fine che l’inizio della campagna. Il verdetto del Cnel, al quale Giorgia Meloni aveva delegato una scelta impopolare sapendo bene cosa avrebbe concluso, è stato senza appello.
Ieri però la discussione è slittata per questioni di calendario, e oggi la maggioranza ha imposto il ritorno in commissione Lavoro: il via libera da parte dell’Aula della Camera è arrivato con 21 voti di differenza. Richiesta motivata dal fatto di procedere con un ulteriore esame alla luce dell’approfondimento curato dal Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) sul lavoro povero. Alla proclamazione del risultato, dai banchi delle minoranze si è levato il grido “vergogna, vergogna”.
Una volta avviata la sessione di bilancio, ed è questione di giorni, la legge non si potrà più discutere per legge, essendo una legge di spesa. Arrivati all’anno prossimo per la maggioranza non sarà compito arduo seppellire definitivamente la proposta. Può essere che le cose, a sorpresa, vadano diversamente e che invece la campagna sul salario minimo capeggi anche nel 2024. In ogni caso una lunga fase è terminata e se ne può tracciare il bilancio. Si tratta infatti non solo della sola retromarcia imposta dalle opposizioni a un governo che pensava di liquidare l’intera questione in poche ore con un emendamento soppressivo in commissione e ha dovuto ripensarci a malincuore, ma anche della sola vera campagna offensiva organizzata dal Pd da quando la destra ha vinto le elezioni e da quando Elly Schlein ha vinto il congresso.
Qualcosa la segretaria ha comunque portato a casa. La proposta originaria era del M5S e il Pd, nella scorsa legislatura, la aveva anzi contrastata. Il Pd è riuscito a impadronirsene e a imporla come sua bandiera, con grande scorno di Conte che ha dovuto subire lo scippo. Intorno a un obiettivo molto popolare e condiviso probabilmente anche da una parte significativa dell’elettorato di destra Elly è riuscita a unificare l’intera opposizione a eccezione di Renzi. In politica una battaglia comune vale più di mille dichiarazioni e l’aver tenuto insieme sia pure tra mille recriminazioni Conte, Fratoianni e Calenda è il solo passo avanti compiuto nella costruzione di una coalizione in grado di competere: non decisivo ma neppure insignificante, tanto più quando in tutta Europa solo alleanze tra soggetti politici anche molto diversi appaiono in grado di fermare un’ondata di destra poderosa.
Inoltre, e forse soprattutto, la segretaria outsider è riuscita a sfruttare la campagna per modificare sostanzialmente la “ragione sociale” del suo partito, l’elettorato di riferimento, dunque almeno in via iniziale la stessa identità del partito. Per una fase molto lunga il Pd aveva fatto dei diritti civili la sua sola vera bandiera, dedicando ai diritti sociali solo poco convinte dichiarazioni di rito. Data la sua biografia politica molti si aspettavano che Elly Schlein rimanesse sulla stessa strada, casomai accentuando ulteriormente il carattere del Pd come partito interclassista interessato soprattutto all’allargamento dei diritti civili. A sorpresa e in buona parte proprio grazie alla campagna sul salario minimo la segretaria ha imboccato la direzione opposta, provando a restituire al Pd i tratti del partito di rappresentanza dei ceti popolari e dei lavoratori.
Sono tutti colpi messi a segno, magari successi sono iniziali e ancora fragili ma indiscutibilmente positivi. La campagna stessa, però, è stata sconfitta o lo sarà presto e bisogna chiedersene la ragione. Nonostante il cambio di rotta, che è indiscutibile, Elly Schlein ha continuato a navigare come se nulla fosse cambiato. La sua campagna è stata condotta a colpi di slogan, che non sono affatto un elemento trascurabile dal momento che indicano l’elettorato di riferimento e l’identità alla quale un partito aspira, ma da soli sono del tutto insufficienti.
La battaglia è stata interpretata come una raffica di apparizioni televisive, raccolte di firme, dichiarazioni incendiarie, e anche di battaglia parlamentare che è essenziale ma, quando si è minoranza, a propria volta insufficiente. Il fronte dei diritti sociali, però, è molto diverso da quello dei diritti civili, sul quale si combatte una sfida essenzialmente a livello d’opinione. Richiede una mobilitazione reale delle fasce direttamente coinvolte, una pressione che non può essere esercitata solo con firme e proclami televisivi.
Il vicolo cieco in cui si trova oggi la segretaria Schlein è questo: aver scelto, giustamente, un terreno che impone metodi di lotta e pressione materiali ma pensando di muoversi come nei decenni precedenti, cioè come un partito d’opinione. Certo non la aiuta, almeno sul fronte del salario minimo, una Cgil che, contraria fino a meno di un anno fa, non può essere oggi più combattiva che tanto. Però la sfida per riportare il Pd a essere un partito popolare e capace di rappresentare le fasce non privilegiate passa inevitabilmente per questa porta stretta.