L'emblematico caso
Macello di Baldichieri, tra contratti beffa e paghe da fame
Sono macellatori, ma la loro società li ha licenziati perché hanno rifiutato di essere inquadrati come “agricoltori” e sono entrati in sciopero. 900 euro per 10 ore di lavoro al giorno: che ne dice Meloni?
Politica - di Marco Grimaldi
Dall’alba le camionette dei reparti mobili sono ferme fra due piccoli eserciti che, però, non sono in guerra fra loro e rifiutano di esserlo. Da un lato, i lavoratori del macello di Baldichieri (Asti) in presidio, dall’altro, quelli di una cooperativa chiamata appositamente da Modena per macellare i circa 600 capi fatti consegnare ieri dal Gruppo Ciemme. Ma come, l’attività non era sospesa? Non proprio, bisogna riprendere un minimo di produzione, altrimenti Esselunga ritirerà la sua pesante commessa. Uno fra i molti ricatti in questa storia.
Per capirla, facciamo un passo indietro: dal 7 all’11 agosto i dipendenti del macello, allora guidato dalla società Fortes, entrano in sciopero per chiedere l’applicazione del Ccln dell’industria alimentare che spetterebbe loro. Dal 14 agosto al 31 agosto vengono collocati forzosamente in ferie, poi la Fortes apre una procedura di licenziamento collettivo per 125 dipendenti. Il 1° settembre subentra la società agricola Ciemme e sospende tutti dal lavoro.
“La precedente azienda si era impegnata con noi per garantire la migrazione al contratto dell’industria alimentare. Quella stessa azienda il 10 di agosto ha messo in sospensione i lavoratori con una lettera e il 25 settembre ha aperto la procedura di licenziamento collettivo, poi, nel mezzo della trattativa, ha annunciato che i lavoratori sarebbero stati ceduti a un’altra società, la Ciemme, che oggi ci dice che definirà come meglio crede il contratto di inserimento della mansione e, siccome è un’azienda agricola, pretende di inquadrare i macellatori col Ccln agricoltura”, mi dice la delegata della Flai Cgil.
Ma c’è di peggio: mentre i dipendenti non sono ancora effettivamente licenziati, perché devono decorrere 75 giorni dall’apertura della procedura, la Ciemme riprende l’attività con altre persone. “Loro sono tutti pronti con le divise in macchina, invece subappaltano a un’altra cooperativa mentre siamo nel mezzo di una procedura in atto. Li sostituiscono senza una lettera di licenziamento”, mi spiega Denis Vayr, il segretario regionale della Flai.
La beffa insopportabile è che l’azienda non solo vorrebbe rimpiazzare i lavoratori in protesta con quelli fatti arrivare apposta da Modena, ma addirittura li ricatta gridandolo dai cancelli, come veri padroni di un tempo: potete essere assunti da noi con il Ccln dell’agricoltura oppure, se non vi piace, potete essere come loro, esternalizzati tramite subappalto a una cooperativa che – pensate un po’ – garantisce proprio il contratto collettivo che avete chiesto e mai ottenuto, quello dell’industria alimentare.
Uomini di tante nazionalità diverse, ognuno con la sua storia, si assiepano attorno a me per raccontare ciò che pensano e che sentono: “Ci sono accordi a livello nazionale che consentono alle aziende di stipulare contratti dell’industria alimentare ma col contributo agricolo, mantenendo la propria natura. Uno stabilimento che macella 7500 capi non è un’impresa agricola, non si può ammettere che contrattualizzi col Ccln agricoltura, perché da domani lo farebbero tutti, conviene anche fiscalmente”. La Flai Cgil è decisa a non aprire le porte a questo scenario. Ed è un fenomeno che già dilaga: lo abbiamo visto con Mondo Convenienza, dove i dipendenti della logistica lavorano col Ccln Multiservizi.
A Baldichieri la Ciemme mette sotto ricatto i macellatori non solo imponendo loro il contratto agricolo, ma addirittura proponendo un periodo di prova. “Chiedono un periodo di prova a noi? Che lavoriamo lì da tanti anni, sappiamo fare il nostro mestiere; il lavoro non cambia, non diventeremo agricoltori, continueremo a fare solo e sempre i macellatori, quello che abbiamo sempre fatto”, dice C. Ma la Ciemme sbandiera la sua offerta come migliorativa rispetto al precedente Ccln Artigiani Alimentari. Mi domando: perdere gli ammortizzatori sociali e guadagnare 900 euro al mese per 10 ore di lavoro senza pause aggiuntive sarebbe migliorativo di che cosa? Sono proprio queste le premesse che costringono chi cerca di arrivare a 1000, 1100 euro, ad accettare qualunque condizione: straordinari e plus-lavoro senza le corrette misure di sicurezza.
Le stragi come quella di Brandizzo si originano qui. “Non siamo in un campo di fiori, ci sono 500-600 suini da macellare, noi vogliamo lavorare e non intendiamo ricattare l’azienda, sono loro che ricattano noi, ci chiedono una firma tombale, una firma che assicura che non chiederemo niente”, dice un lavoratore alla consigliera comunale di Sinistra Ecologista Sara Diena, con me al presidio. Esce dallo stabilimento una dirigente dell’azienda. Mi apostrofa: “Mi dica, chi mi costringe a non inquadrarli come agricoltori?” La risposta è un’altra domanda, di nuovo per bocca di un lavoratore: “È possibile che nel 2023 un datore, un padrone, scelga il contratto che gli è più conveniente come se fosse al supermercato?”. Non devo aggiungere altro, come ho provato a spiegare alla nuova proprietà: io non sono neutrale e nessuna istituzione dovrebbe esserlo di fronte a un ricatto.
Leggendo questo articolo potreste chiedervi perché è tanto importante il corretto inquadramento. Ebbene, c’è una questione di riconoscimento sia simbolico che materiale. Questi lavoratori non bramano essere chiamati “macellatori”, ma lo sono, e sanno esattamente ciò che non sono: “agricoltori”. Vogliono che sia loro riconosciuta la professionalità acquisita in anni di esperienza, ma anche i diritti che gli spettano. Negli ultimi 10 anni i cambi di appalto sono stati 5 e loro sono passati dal contratto multiservizi, a una cooperativa, poi al contratto artigianato alimentare, nonostante la presenza di 135 dipendenti, con il raddoppio delle ore di straordinario a 400 l’anno e il dimezzamento della percentuale della maggiorazione. A ogni passaggio il carico di lavoro è rimasto lo stesso, invece è cambiato il contratto e sono peggiorate le condizioni.
“È tutto rotto e malfunzionante”, continua C., “i ritmi di macellazione non consentono di fare tutti quei passaggi che garantirebbero la nostra salute e la nostra sicurezza. Vi lascio immaginare gli infortuni che possono capitare in un’azienda gestita così. Oggi mi sono concesso questa vacanza. Ma a casa mia moglie con i quattro bambini, di cui uno appena nato, ha bisogno di me”. Alle 12 i macellatori arrivati da Modena entrano nello stabilimento, senza subire alcun attacco da parte dei lavoratori in presidio, che sanno bene che sono altri i loro nemici. A fine giornata, portiamo le parti in Prefettura per riaprire un dialogo. Eppure so che non basterà. Serve che l’attenzione non cali. Il governo Meloni si scaglia contro il salario minimo legale sostenendo di voler difendere la contrattazione collettiva.
Se è davvero così, intervenga una volta per tutte per mettere un freno a queste situazioni. Si apra in Parlamento la discussione su una legge per regolare la rappresentanza e la corrispondenza dei contratti alle mansioni. Non esiste il diritto dell’azienda a scegliere il rapporto di lavoro che vuole. Lo deve capire anche quella politica che, con un riflesso condizionato, difende sempre la libertà dell’impresa a fare qualunque cosa.
Ma non credo proprio che un prefetto vorrebbe essere inquadrato come un alto funzionario della polizia municipale, un giudice come un cancelliere con indennità maggiorata, né che un deputato accetterebbe di essere pagato con gettoni di presenza come un consigliere comunale. O sbaglio? Ho chiesto un’informativa urgente alla Camera da parte dei Ministri del Lavoro, dell’Agricoltura e del Made in Italy. Ci dicano da che parte sta lo Stato. Ci dicano che i lavoratori e le lavoratrici non possono essere usati come eserciti gli uni contro gli altri.
*Deputato Alleanza Verdi e Sinistra