Racconti dalla prigione

Carcere di Turi, uno dei modelli d’Italia in cui quasi nulla è secondo legge

153 detenuti in 113 posti. Gabinetto minuscolo in cella, senza bidet, acqua solo fredda e senza soffitto. “Noi nel lavandino dobbiamo fare tutto: anche lavare i piatti”

Editoriali - di Angela Nocioni - 27 Settembre 2023

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Carcere di Turi, uno dei modelli d’Italia in cui quasi nulla è secondo legge

Il grigio asfissiante della stanza. Il dente che pulsa. L’antidolorifico che non arriva. La rabbia che monta dentro. Di là dal tavolino la voce chirurgica, distante, dell’agente di guardia: “La pasticca te l’andiamo a prendere dopo”. La reazione: il tavolino che vola, uno strattone alla divisa. Le urla. Braccia che immobilizzano. Parole sottovoce. L’allarme che corre su per le scale: aggressione, aggressione.

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Ormai è successo, era otto giorni fa. Adesso c’è solo il rumore del respiro. Da otto giorni soltanto il rumore del respiro. La punizione dell’isolamento. Una porta si apre, passi nell’acustica gelida del corridoio. La funzionaria del carcere in un sussurro: “È un borderline, è arrivato da poco. È in isolamento disciplinare”. Esita. “Un peccato, stava trovando un equilibrio qua dentro. Viene da abusi di alcool e cocaina. Non ha famiglia, non ha nessuno”. Due parenti in realtà ce l’ha. Un fratello, in carcere a Bari. E uno zio. È lo zio che l’ha denunciato.

Lui è in fondo al piano terra, curvo, seduto su un lettino da infermeria sotto una finestrella piccola piccola vicino al soffitto. Si tira su, poggia i piedi a terra con prudenza. Cammina verso le sbarre: “No, non mi hanno menato, no. Sto meglio, grazie”. Tra i suoi occhi e la stanza vuota sembra esserci una nube di ovatta. “Non faccio niente qui dentro. Vorrei fare la scuola, non so se posso ora che ho combinato questo problema”. “Il dente fa male”. Un dentista? “Non mi ha visto, è venuto ma non mi hanno chiamato”. Faccia stupita della funzionaria. Minuta, gentile, parla sempre a bassa voce: “Il dentista non ti ha visitato?” Lui la guarda, sorride: “No, non mi hanno chiamato”. Farmaci? “Mi danno il Rivotril”. Rivotril: benzodiazepine. Il Rivotril sì, il dentista no.

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Il carcere è un edificio ottocentesco in pietra al centro di Turi, paese di case bianche a due piani a trenta chilometri al sud di Bari. Doveva essere un convento per clarisse, ma le suore qui non sono mai entrate. Requisito dal demanio, è carcere dal 1880. Detenuti quasi tutti italiani, tutti poveri. Molti sono dentro per rapina. 8 tentati suicidi, l’ultimo ad agosto. “Non aveva dato segni”, la voce incerta della direttrice (reggente, sta qui a mezzo servizio, è titolare al carcere di Brindisi).

Un vecchio agente, preso da parte: “Ci provano ad uccidersi, certo che ci provano e non gli si può togliere tutto, provano a impiccarsi o a soffocarsi con le buste”. Altro agente: “Non gli danno niente da fare ai detenuti, con il fatto che la prigione è vecchia un posto per lavorare non lo creano, la scuola di ragioneria c’è sì: ma sono solo due ore”. Questa è una casa di reclusione con condannati a più di 5 anni, per legge dovrebbero poter lavorare. Meno del 15% di loro lavora. Per non più di tre mesi all’anno.

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Odore di candeggina. Scala stretta chiusa da un cancello di sbarre nere. L’agente di polizia penitenziaria, alto, magro e infastidito, ha un mazzo di incredibili grandi chiavi color oro. Altro cancello. Altra chiave. Un lungo corridoio grigio. Mani maschili si allacciano alle sbarre. I vecchi restano seduti, guardano a terra. I giovani si affacciano, cercano. Misurano tutto con gli occhi socchiusi come i gatti. Alcuni chiamano con un cenno della mano. Gli sguardi si coprono di una sottomissione assoluta, di una totale riverenza. La necessità di affidarsi agli sconosciuti entrati in carcere, chiunque siano. Una voce dal fondo: “Le noccioline non ce le tirate?”

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È molto giovane, non conosce nessuno ed è nero: tre cose pericolosissime in un carcere. È arrivato in Italia in barcone. È del sud del Ghana. Ha gli occhi spaventati di un bambino che non sa dov’è e non vuole piangere. A gesti simula di avere un timone in mano. “Detto che io guidavo barca, io capitano, prima chiuso a Bari, poi portato qui”. Fa il gesto del fucile sulla testa di un compagno di cella, congolese. “In Libia detto me: tu devi guidare o tu muori”. Quanti eravate? “86”. Chi vi ha trovato? Si illumina un istante: “Open arms, salvati, loro buoni”. (Sono 1.124 le persone detenute in Italia come scafisti – dati aggiornati al 23 marzo 2023 – quelli a cui “dare la caccia per tutto l’orbe terracqueo”. A loro si è aggrappata Giorgia Meloni anche al Palazzo di vetro per non affogare. Di solito sono i più poveri del gommone, mai i trafficanti).

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Due ritagli di Arsenio Lupin, due poster identici della stessa donna nuda, un Vangelo stropicciato, La storia di Elsa Morante e Il Sistema di Sallusti e Palamara, adesivi di piccoli alieni verdi, bottiglie di plastica tagliate come posacenere. Un cartello a penna in corridoio: “Vietato radersi sotto la doccia”. Fuori c’è sole. Il sole pieno, giallo, radioso di un mezzogiorno di settembre. Dentro cola un filo di luce grigia, sporca.
La metà delle celle non vede fuori, la finestra oltre le due file di sbarre è chiusa da una rete fitta e dalle “gelosie”: vetri smerigliati pesanti, non lasciano passare nemmeno le ombre. Vietati per legge. Una frase in un soffio: “Sono due anni e mezzo che non vedo le stelle”.

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Quasi niente nel carcere di Turi è secondo la legge. Il massimo dei detenuti consentito è di 113 persone. Ce ne sono 153. Anche sei in una cella. Letti a castello. Un gabinetto minuscolo senza bidet, acqua solo fredda e aperto in alto: senza soffitto. “Noi nel lavandino dobbiamo fare tutto: anche lavare i piatti”. L’agente sta sempre a meno di un metro e ascolta. Mi scusi, non potete mettere un soffitto di fortuna sui cessi? “Quello che lei chiama volgarmente cesso è un bagno e loro sanno di essere fortunati perché in altri posti non c’è. Chi deve provvedere semmai è il dipartimento…” accarezza le chiavi alla cintola come fossero il suo levriero al guinzaglio.

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Un uomo alto, con gli occhi enormi e le stampelle: “Io non posso sedermi mai, mangio in piedi, faccio tutto in piedi, anche in bagno la faccio in piedi, chiedo scusa, ma come spiego, mi fa tutto lui, il mio piantone, mi accompagna in bagno, mi aiuta, mi rifà il letto. Noi non siamo bestie, perché vivere come bestie? Ho sbagliato e pago, ma il giudice mi ha condannato alla prigione, non a vivere così. Mi vede, io dove vado con queste gambe?”. Nel gergo carcerario il piantone non è il secondino – la “guardia” – ma un compagno di cella che, in cambio di pochi soldi, assiste o fa le pulizie per un altro detenuto. Dice il piantone: “Lui sta male. Deve camminare, per la sua malattia lui dovrebbe muoversi e come fa in tre metri?”.

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Chi ha figli minori deve vederli in un’area verde, la norma vige in Italia dal 2000. La direttrice ha detto che questo carcere ha un’area verde. Nel cortile tra due grossi muri c’è una fila di aiuole di cespugli separati da reti. Ma non c’è mai entrato nessun detenuto. Un ragazzo sulla trentina, senza figli: “Gli incontri li fanno in una stanza colloqui, tutti insieme, non si muovono là dentro, bambini, adulti, un gran casino, non c’è nemmeno posto per sedersi”. Il magistrato di sorveglianza? “Mai visto”. Un funzionario del penitenziario a occhi bassi conferma: “Non vengono”.

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C’è una sola cella vuota in tutto il carcere. È nella prima sezione. Primo piano, lungo il corridoio, a destra. Un letto e un tavolino dove Antonio Gramsci scrisse i suoi Quaderni . È stato qui 5 anni e 4 mesi, dall’agosto del ’28 al ’33, matricola 7047. In fondo al corridoio, la cella che fu di Sandro Pertini. Ora ci stanno in cinque. La chiave d’oro apre la sala della palestra, c’è anche quella. Cyclette, quadro svedese, macchinari per i pesi. Tutti con tre dita di polvere dentro una stanza chiusa a più mandate. “Non viene il medico per le visite”, dice un accompagnatore.

“Stiamo mettendo le telecamere”, dice la guardia. “Dicono che non possiamo usare la palestra perché non c’è il trainer” racconta un detenuto. “Io sono qui dal 2019 e non l’ho mai vista aperta” spiega un altro. Un maghrebino in canottiera: “Io faccio i pesi da solo con le bottiglie d’acqua. Stavo al Cpt di Brindisi, tante botte, mi portavano in una stanza senza telecamere e mi menavano con i caschi, una volta con i caschi e il martello, allora ho sfasciato cose e m’hanno messo in carcere, meglio”. La sua figlia più piccola aveva 5 mesi, ora ha 9 anni. Vive con la madre a Bolzano, non lo vede mai.

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Un detenuto pugliese si vanta di non esser qui per droga: “Spaccio no eh, io solo rapina”. Appesa a una parete di una cella dove sono in quattro, il più grande è di Bari, c’è un modellino perfetto di un veliero. “L’ha fatto lui, con pezzetti di carta e cartone”. “Gli ho insegnato io, ho fatto qua dentro una barca lunga due metri. Era bellissima. L’abbiamo fatta uscire, lei”.

27 Settembre 2023

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