L'addio a 87 anni
Gianni Vattimo amava la carità e la libertà: odiava la verità
Sprezzante delle contraddizioni e dei giudizi, si definiva “comunista e cristiano”, perché in queste ideologie, trovava ciò che cercava: non solo un “pensiero debole”, ma un pensiero “per i deboli”
Cultura - di Lucrezia Ercoli
“Ero debole”. Questo epitaffio compare sulla pagina Facebook di Gianni Vattimo alle ore 22:00 di martedì, insieme alle date di nascita e di morte, 04 gennaio 1936 / 19 settembre 2023. Naturalmente non è stato lui a scriverlo, si era già liberato dal suo corpo mortale, ma il post che annuncia la sua scomparsa strappa un malinconico sorriso ed è immediatamente condiviso da centinaia di amici, colleghi, allievi, lettori, comuni estimatori che in quel calembour dolceamaro riconoscono l’ironia e la leggerezza profonda del teorico del “pensiero debole” che scherza con la sua (e con la nostra) dipartita.
Siamo deboli – lui, come noi – e condividiamo lo stesso destino mortale, segnato dalla finitezza. Questo il suo ultimo insegnamento: accettare di Non essere Dio, come recitava il titolo della sua (auto)biografia a quattro mani con Piergiorgio Paterlini (Ponte alle Grazie, 2007), per i suoi settant’anni. Siamo chiamati a convivere con la nostra fragilità, e non abbiamo a disposizione certezze incontrovertibili e verità assolute dietro cui nasconderci.
Incontrai Gianni Vattimo per la prima volta nel settembre 2009, in occasione del mio primo festival filosofico che stavo organizzando a Civitanova Marche insieme al professor Umberto Curi. Avevo poco più di vent’anni, stavo per laurearmi in filosofia e avevo sudato sul suo saggio del 1974 Il soggetto e la maschera per l’esame su Friedrich Nietzsche. Lo salutai con il rispetto dovuto a uno dei più importanti filosofi italiani, studiato e apprezzato in tutto il mondo. Immaginate la trepidazione di incontrare chi aveva segnato la storia del pensiero contemporaneo e dialogava alla pari con i più grandi pensatori viventi.
Ma lui non volle essere trattato come un “venerato Maestro”, rifuggiva l’alterigia dei baroni universitari e la superbia degli accademici; con un sorriso accogliente e genuino, spazzò via ogni affettato imbarazzo. Di fronte a un bicchiere di vino, discettava con aria bonaria di vita e di filosofia, trasmettendo a tutti un’umanità calorosa, capace di far franare tutte le gerarchie sociali e intellettuali. Con lui ogni nostro festival si trasformava in una festa del pensiero e in un gioco dell’intelletto. Da Vattimo non ci si aspettava l’ennesima lectio magistralis seriosa e cattedratica, ma un autentico dialogo filosofico, condito di dotte citazioni e di guizzi creativi, di battute scherzose e di vette teoretiche.
La sua capacità di passare dal serio al faceto abbatteva gli steccati tra cultura alta e cultura bassa, tra centro e periferia, tra borghesia e borgata, tra università e televisione. Ricordo che mentre parlava del difficile rapporto tra scienza e democrazia nel mondo contemporaneo, si fermò per ricordare di quando un traduttore in lingua spagnola aveva confuso la sua citazione di Popper con un riferimento a Harry Potter, facendo scoppiare il pubblico attento e concentrato in una risata liberatoria. D’altronde Il pensiero debole è il titolo della famosa raccolta di saggi, curata insieme a Pier Aldo Rovatti e pubblicata nel 1983, ma anche il tormentone ri-lanciato da Roberto D’agostino in Quelli della notte, mentre straparlava di “edonismo reaganiano” con montaggi situazionisti tratti dal flusso mediatico dell’epoca. Insomma, una formula filosofica di successo, esposta a mille fraintendimenti e decontestualizzazioni, di cui lui per primo sorrideva.
“La filosofia, da sempre, per me deve essere utile, è strettamente intrecciata alla vita”, questo era l’importante. Seguiva la massima di Goethe che Nietzsche cita nel suo Sull’utilità e il danno della storia per la vita: “mi è odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività”. Vattimo aveva preso sul serio l’annuncio nietzschiano: “Non ci sono fatti ma solo interpretazioni, e anche questa è un’interpretazione”. È finita l’era degli eterni e degli assoluti, viviamo nell’era delle interpretazioni e delle opinioni. Le fondamenta su cui edifichiamo le nostre certezze sono sabbiose, siamo esposti alla tempesta, senza ancore di salvezza. Ma Vattimo ci invitava anche a cercare l’allegria dei naufragi: emancipati dai dogmi del passato, dobbiamo amare la nostra libertà. E si scagliava contro i detentori della “verità vera” che pretendono di definirci una volta per tutte: chi vuole affermare una verità assoluta, valida sempre e per tutti, vuole solo esercitare un’autorità. Nelle aule universitarie e nelle piazze cittadine invitava gli studenti e il pubblico a diffidare dagli esperti e dai tecnici che vogliono governarci bypassando il consenso democratico.
“Sconfitto in tutti i luoghi del mondo, non mi sono mai sentito così libero”. La sua vita irregolare e anarchica è testimonianza del suo amore per la libertà, a ogni costo, a rischio di tutto. Era capace di ironizzare su tutto, di prendersi gioco di tutto (innanzitutto di sé stesso), di ridere dei più intoccabili tabù; e ha trasformato la sua libertà vissuta e ostentata in una pratica di liberazione contagiosa. Come gli antichi parresiastes, Vattimo era un Maestro di pensiero e un Maestro di vita. Sprezzante delle contraddizioni e dei giudizi, si definiva “comunista e cristiano”, perché in queste ideologie, trovava ciò che cercava: non solo un “pensiero debole”, ma un pensiero “per i deboli”. Tanto che al posto della parola “verità” spesso usava la parola “carità”, non nel senso buonista ecumenico, ma nel senso di un’intersoggettività necessaria che ci obbliga alla relazione con gli altri. Ma non risparmiava critiche irridenti e sarcastiche al mondo delle gerarchie ecclesiastiche invischiate nei vizi temporali.
In un mondo intriso di moralismo e omofobia, amava raccontare apertamente della sua omosessualità e delle sue scorribande sentimentali e sessuali, senza censure e senza pudori, ribaltando i sensi di colpa della sua educazione cattolica assimilata in oratorio. Nel 2012, dal palco del nostro festival “Popsophia”, si era indignato per la mancata legalizzazione delle coppie omosessuali. Ricordando il caso di Lucio Dalla, morto proprio in quell’anno, aveva ribadito il suo scandalo per ciò che avviene dopo la morte di uno dei conviventi: “Il compagno di una vita è stato espropriato di tutto. In molti casi i soldi se li beccano i parenti di sangue, fino a quel momento non pervenuti. E questo vuol dire negare i nostri diritti fondamentali, calpesta la nostra Costituzione”.
Non sapeva che stava profetizzando il suo triste destino. Negli ultimi anni Vattimo è stato osteggiato e perseguitato da tribunali, perizie, udienze: volevano a ogni costo riconoscerlo incapace di intendere e di volere, sottometterlo all’amministratore di sostegno, separarlo dal suo assistente e compagno di vita Simone Caminada, condannato per “circonvenzione di incapace”. A nulla era valso il durissimo appello di Alessandro Dal Lago e Pier Aldo Rovatti, che – sulle pagine de “Il Manifesto” nel giugno del 2021 – chiamavano a raccolta colleghi e amici contro la terribile “alleanza tra il potere psichiatrico e il potere giudiziario-inquisitivo” che si era intromessa nella vita personale del filosofo torinese. Fino alla fine, come insegnava Nietzsche in Umano, troppo umano, è stato uno “spirito libero”.