Il caso
Caso Gianni Vattimo, lasciateci circonvenire in pace
Paradosso nel paradosso: proprio l’unione civile che si è voluto non fosse matrimonio, e che per sua natura dovrebbe essere dimora dell’indebolimento, semplice presa d’atto di uno stato, finalmente minuscolo e non impiccione, di una condizione storicamente data.
Cultura - di Roberto Rampi
La vicenda che riguarda Gianni Vattimo e il suo convivente mi coinvolge anche personalmente, non lo nascondo, come allievo di Vattimo, come amico, come persona a cui è stato chiesto di unirli civilmente e che ad ora non è ancora riuscita, pur volendo, a farlo. Nelle ultime settimane e negli ultimi giorni, seppur con meno attenzione mediatica, si sono aperte nuove ferite e risvolti anche drammatici che forse dovrebbe davvero far riflettere sulle norme, ma ancor più sul senso delle norme. Ma la vicenda va oltre il fatto di cronaca e la questione personale, e ha a che vedere con la cultura giuridica, lo Stato di Diritto, il ritorno sempre più incombente dello Stato Etico, in forme nuove e sempre più subdole. E ha a che vedere con lo stesso pensiero debole. La sua forza e la sua attualità.
E tocca anche la discussione politico filosofica del matrimonio, delle unioni civili, e dei meritori Patti Civili di Solidarietà di Franco Grillini che andavano al fondo del cambio di paradigma a mio parere necessario e ancora del tutto al di là da venire. Perché il tema alla fine non è meno complesso della natura del rapporto tra Stato e Persona, del ruolo dello Stato come garante delle libertà singole e associate e del loro equilibrio, piuttosto che di tutore legale, braccio armato di una morale consolidata e quindi anche di una tutela non richiesta, di una garanzia del bene comune presunto e pericolosamente e giuridicamente definito.
Alla fine siamo lì: alla disfida tra stato debole e Stato forte verrebbe da dire. Se il concetto di indebolimento, come introdotto da Vattimo nel dibattito mondiale delle idee negli anni sessanta del secolo scorso, riuscisse finalmente ad uscire dalla caricaturale accusa di debolezza che una cultura machista e prestazionalista non riesce a non coltivare. Debole è la forza della discussione: pluralista e rispettosa delle differenze, antidogmatica, nonviolenta e prosciugatrice delle fonti della violenza, che stanno nel Giudizio e nella presunzione di definire Verità assolute.
Ne consegue un relativismo che, ben lungi dalle caricature che si sono costruite, non è il dominio dell’arbitrio, ma un faticoso ma fondamentalmente principio di tutela delle minoranze: storiche, culturali, politiche e religiose; dei pensieri altri, impropri, fuori dal coro (che spesso si rivelano profetici, innovatori, rivoluzionari); delle idee non ortodosse e non convenzionali che altrimenti morirebbero sotto la scure del conformismo, a maggior ragione se forte del braccio violento della Legge, della Giustizia, dello Stato.
E allora eccolo qui il bellissimo angelo liberatore che fa ancora esplodere le sue bombe nonviolente nella tranquillità dei salotti borghesi. Lui figlio di immigrati calabresi nella Torino degli anni cinquanta, orfano, adottato dalle istituzioni cattoliche e allievo di un grande pensatore cristiano e moderato che diventa Ordinario di Filosofia, Preside di Facoltà provenendo dal nulla, senza parentele consolidate, e scandalizza con la sua omosessualità dichiarata e con la sua colta e dissacrante ironia, con la sua schiettezza, con le sue convivenze, fino a quel matrimonio debole, così esplicativo del suo pensiero, combinato con la figlia di una amica con cui non ha mai pensato di dividere in talamo.
E se questo non viene impugnato, paradossalmente, perché conforme alla tradizione ormai lungamente e diffusamente tradita, diventa invece scandalo e trafila legale il suo superamento nella direzione di una civilissima unione, la registrazione di uno status quo, quello della sua lunga e duratura convivenza con il suo pluridecennale assistente. Paradosso nel paradosso: proprio l’unione civile che si è voluto non fosse matrimonio, e che per sua natura dovrebbe essere dimora dell’indebolimento, semplice presa d’atto di uno stato, finalmente minuscolo e non impiccione, di una condizione storicamente data.
Ed eccoci ancora nell’eterno ritorno della domanda di fondo. Che cosa è lo Stato e cosa deve essere? È giusto che celebri matrimoni come una Chiesa? Questo tema lo ponevano i cattolici impegnati quando chiedevano matrimoni non concordatari. O dovrebbe più semplicemente essere testimone e organizzatore delle condizioni molteplici che la Vita riserva ad ognuno di noi, solo e quando davvero se ne senta il bisogno.
Vade retro Stato! E lasciaci circonvenire in pace. Che poi, in fondo esiste una storia, d’amore o di affetto, che non contenga un po’ di reciproca o non reciproca circonvenzione? E lo stato dionisiaco non ha al fondo natura di incapacità in quanto tale? Esiste uno spazio fuori dal dominio del Logos apollineo in cui ognuno può praticare là propria incapacità e mancanza di lucidità in pace senza che i sacerdoti del Bene se ne debbano prendere cura?