Un riformista alla Cgil

Chi era Fernando Santi, sindacalista che guidò la corrente socialista della Cgil

Ha fatto politica e cultura quando in Italia c’erano un grande movimento socialista e un grande sindacato. Diceva: i lavoratori devono votare e decidere nelle assemblee.

Editoriali - di Fabrizio Cicchitto

16 Settembre 2023 alle 15:00

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Chi era Fernando Santi, sindacalista che guidò la corrente socialista della Cgil

Ieri a Parma abbiamo commemorato Fernando Santi, nell’anniversario della sua morte avvenuta il 15 settembre 1969. Purtroppo per molti giovani e anche per persone di mezza età questo nome non dice molto. E invece si è trattato di un grande personaggio che ha fatto politica e cultura quando in Italia c’erano un grande movimento socialista e un grande sindacato come la Cgil. Quasi per caso il sottoscritto entrò all’ufficio studi della Cgil avendo l’intenzione di star lì il tempo necessario per fare un corso Swimez in Econometria e da lì volare alla London School Economics per specializzarsi in Economia.

Grazie a Santi, o per colpa sua, andò tutto in modo radicalmente diverso, perché lui mi elesse suo consigliere politico, ghost writer per l’economia, insomma un giovane amico con il quale passare il sabato o la domenica nella cucina del suo appartamento gratificato da straordinari tortellini cucinati dalla sua moglie adorata, a parlare per ore di politica, a collaborare alla stesura dei suoi discorsi che egli, come Pietro Nenni, scriveva a penna dall’inizio alla fine avendo anche la civetteria di mettere fra parentesi i prevedibili effetti speciali (“applausi fragorosi di tutta la sala”, “risate prolungare”, “contestazioni limitate a un nucleo assai ristretto”).

Questo stile di Nenni e di Santi era all’opposto di quello di Riccardo Lombardi, che invece scriveva limitate scalette sul retro di una cartolina, e poi parlava a braccio ragionando ad alta voce anche con platee congressuali di centinaia di persone sulla caduta tendenziale del saggio di profitto e sulla contrapposizione fra Lenin e Rosa Luxemburg, sulla concezione del partito e sul ruolo delle masse. Comunque il sottoscritto si è formato alla scuola di un grande sindacato, diviso in correnti (prima comunisti e socialisti, poi si aggiunsero anche transitoriamente gli psiuppini). Il sindacato della Cgil era diretto da un comitato direttivo nel quale si succedevano gli interventi, senza limiti di tempo che non fossero quelli dettati dal buonsenso, personaggi del calibro di Novella, Santi, Foa, Lama, Trentin, Garavini, Romagnoli, Boni, Didò, Brodolini. Si parlava a 360 gradi di economia, di politica, si analizzava la società italiana, senza “rete” , cioè senza schemi precostituiti di partito.

Coloro che avevano alle spalle la rigidità dello schematismo imposto dal centralismo democratico del partito quasi sempre lo lasciavano a casa, in via delle Botteghe oscure, e in Cgil parlavano con grande libertà. In quel contesto, con un retroterra segnato fin dagli anni Trenta dalla demonizzazione del Riformismo che poi anche nel PSI fu interamente riscattato da Craxi solo nel 1981, invece Fernando Santi si auto definiva “riformista” già fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta e tale era in modo totale, un riformista “padano” in termini ideologici, politici, psicologici e anche antropologici.

Un fortissimo e radicato riformista padano inviato in Cgil in periodo frontista a riprendere la guida della corrente sindacale socialista dopo i danni fatti dal fusionista Lizzadri che, importando nel sindacato il frontismo appiattito che vigeva nel partito, nel 1952 aveva provocato una autentica catastrofe. Grazie anche alla presenza nella Cgil della componente cattolica, che poi fece la scissione nel 1947, nel sindacato si votava sia sulle scelte rivendicative, sia per le cariche elettive. Invece Lizzadri che era qualcosa di peggio di un frontista perché fusionista si inventò il metodo della lista unica per provocare il massimo appiattimento dei socialisti.

Santi arrivò in quell’ambiente avendo in testa tutt’altre cose, e cominciò ad alzare il tiro e a rimescolare le carte essendo uno di quelli che con Riccardo Lombardi, Foa, Jacometti e Pieraccini (autonomisti di destra e di sinistra) dopo la catastrofe del fronte popolare del 18 aprile aveva contestato e messo in minoranza in un congresso del ‘48 il duo stalinista Nenni-Morandi che poi, però, sciaguratamente riconquistò il PSI un anno dopo solo grazie ai soldi provenienti dal PCUS (Lombardi al sottoscritto: “Che potevamo fare? Ce li vedi io, Santi e Foa che andavamo dalla Cia, dalla Fiat, o dall’Assolombarda a chiedere finanziamenti alternativi a quelli del KGB? Allora terze vie e terzi finanziatori non c’erano”).

Comunque Santi qualche puntino sulle I cominciò a metterlo, in una riunione del direttivo della Cgil parlò con finta nonchalance del fatto che “troppi scioperi sono decisi dai comitati centrali”, e che invece, a partire dalle scelte rivendicative, i lavoratori dovevano essere chiamati a votare e a decidere nelle assemblee. Santi aveva il vantaggio di avere come segretario generale Di Vittorio, fino a quando questi morì di crepacuore per gli attacchi durissimi che Togliatti gli rivolse perché in un primo momento, su sollecitazione della corrente socialista aveva schierato la Cgil contro i carri armati in Ungheria.

In tutta la sua storia Di Vittorio riassunse in sé la quintessenza di una posizione gradualista, produttivista, sostanzialmente riformista, capace però con il suo fascino carismatico di mobilitare e di portare in campo le masse operaie e specialmente i braccianti meridionali. Di qui il lancio da parte della Cgil di quel “piano del lavoro” alla cui elaborazione contribuì anche Riccardo Lombardi e molti economisti di grande livello, un piano che scavalcò l’opposizione schematica e ideologica del PCI e del PSI di quei tempi e che costituì un esercizio ben calibrato di Keynesismo fondato su una catena di proposte riformiste e anche sulla indicazione di cifre.

Successivamente Santi diede il meglio di se stesso al decollo e anche al contraddittorio andamento del centrosinistra. Avendo in quella fase una intesa di fondo con Novella e con Lama, Santi garantì al suo partito e anche all’intero quadro politico una autentica autonomia della Cgil. Ovviamente quella autonomia, per essere reale, consistette in un appoggio ai momenti alti del centrosinistra malgrado fossero tutti contestati dal PCI con motivazioni demagogiche, ma prendendo anche le distanze dall’intermedia (anni ‘68-‘73) involuzione moderata (quella segnata dal “tintinnio delle manette” di Segni e poi dalla “glaciazione morotea”). Poi a proposito della operazione scialba e mediocre costituita dalla unificazione fra il PSI e il PSDI Santi fulminò con una battuta Pietro Nenni: “Ho detto a Pietro: guarda che non sempre 2 più 2 fa 4, qualche volta in politica fa 3!”.

Sul piano politico culturale è stato molto interessante e originale il rapporto di Santi con Giorgio Amendola. Amendola, che purtroppo nella sua fase finale fu preso da una involuzione filo-sovietica, precedentemente fu invece un forte innovatore: così in un fondamentale comitato centrale del PCI (dedicato allo stalinismo, 1961) Amendola fece davvero vedere i sorci verdi a Togliatti che, infuriato, fece una replica così polemica che il direttore dell’Unità Reichlin non pubblicò. In quella replica Togliatti disse che Amendola era troppo provinciale e che era bene che il partito lo facesse viaggiare molto all’estero (questo estero per Togliatti era costituito dai Paesi comunisti).

Qualche anno dopo, Amendola provocò nel PCI un autentico scandalo scrivendo in un articolo che erano falliti sia l’esperienza comunista che quella socialdemocratica. E fu attaccato non solo da tutti gli esponenti del PCI, ma anche da Pietro Nenni che proprio in quel periodo stava lanciando l’unificazione fra il PSI e il PSDI. Al contrario, Fernando Santi offrì una sponda ad Amendola: a Santi ovviamente non andava bene il PCI ma nemmeno l’esito misero e squallido di quella ipotesi di partito socialista unificato.

Invece Santi contestò Amendola quando questi non solo attaccò Ingrao per la sua linea troppo di sinistra, ma anche sulla sua richiesta di democrazia interna: “Su questo caro Giorgio, Ingrao ha ragione e tu dovevi sostenerlo da posizioni ideologiche e politiche di opposto segno”. Ci fermiamo qui, ma ci sembra evidente che, al di là dei rapporti personali col sottoscritto, Fernando Santi è stato un gigante. Però il mio rimpianto non si ferma qui. Esso riguarda anche il ricordo di una Cgil che era insieme un grande sindacato di massa e la sede di dibattito politico-culturali a livelli assai elevati, con una vivacità e una spregiudicatezza che andava oltre l’atmosfera dominante nei partiti.

16 Settembre 2023

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