Polemiche contro Gentiloni
Il bene della Meloni non è il bene dell’Italia
Con la polemica contro Gentiloni qui si lascia intendere che l’interesse italiano e l’interesse del governo siano una cosa sola, che il vantaggio dell’uno sia il vantaggio dell’altro e che arrecare danno a questo arrechi danno all’altro. Non è così.
Politica - di Iuri Maria Prado
Sul fatto che un Commissario dell’Unione Europea debba difendere “l’interesse italiano” sarebbe il caso di intendersi: magari cominciando a dire che non è un fatto ma una solenne sciocchezza. Ovviamente non si tratta di legittimare il principio opposto, e cioè che un ministro comunitario debba sistematicamente lavorare contro l’interesse del proprio Paese: ma resta che il suo ruolo non è quello del plenipotenziario che va lassù a reclamare rispetto per il buon nome dell’Italia.
Tanto meno quando il rispetto è invocato – come purtroppo ci è tradizionale – a tutela e manutenzione delle sistematiche arretratezze italiane spacciate per “peculiarità” meritevoli di trattamento derogatorio. Per intendersi: può dispiacere, ma un Commissario europeo non è l’ambasciatore dei balneari né il capo delegazione dei tassisti né l’avvocato delle dilapidazioni clientelari che perpetuano le disfunzioni nazionali. Ma poi occorrerebbe intendersi sulla necessità di non confondere: l’interesse italiano non coincide necessariamente con l’interesse del governo, che sia l’attuale o qualunque altro, passato o futuro.
Mentre qui si lascia intendere proprio questo, vale a dire che l’interesse italiano e l’interesse del governo siano una cosa sola, che il vantaggio dell’uno sia il vantaggio dell’altro e che arrecare danno a questo arrechi danno all’altro. Non è così. E le polemiche di questi giorni circa le presunte condotte anti-italiane del Commissario Gentiloni appartengono proprio a questo fraintendimento. Possiamo anche accantonare il fatto abbastanza significativo che provengano da un signore, il ministro Salvini, che rappresentava l’interesse italiano facendosi fotografare sulla Piazza Rossa nella gioiosa esibizione della maglietta con il ritratto dell’autocrate russo, lo statista “più lungimirante sulla faccia della terra” (testuale) e che se fosse stato per lui, per Salvini, bisognava “tutta la vita” mollare Angela Merkel e prendere Putin portandolo al governo “nella metà dei Paesi europei” (un’altra volta testuale).
E ancora dimentichiamoci pure che a condividere le requisitorie contro Gentiloni sia la stessa presidente del Consiglio, quella dell’interesse italiano difeso nei conciliaboli con Viktor Orbán, nei gemellaggi culturali con Steve Bannon e tra gli urli dei comizi per il trionfo della cruz universal, scena da Brancaleone in versione castigliana ma più ridicola, perché serissima. Quel che importa di quelle polemiche e le connota malissimo, a prescindere dalla credibilità di chi le fa montare, è il tratto nazional-cospirazionista per cui si segnalano, l’eterno segno della spavalderia messa a rimedio di una presentabilità ammaccata, con la vista sui meravigliosi destini del Paese ingiustamente impedita dal traditore che si mette di mezzo per cinico calcolo personale.
Per carità di patria (per una volta la dicitura è appropriata) ci si può dimenticare dei dettagli più grotteschi di questa lamentazione, dalla gaffe sulle presunte inerzie europee a proposito dell’accordo Ita-Lufthansa mentre la Commissione avvisa che nulla in proposito è stato notificato, alle scemenze di qualche notabile leghista circa l’abdicazione cui Gentiloni sarebbe stato costretto nell’accettare deleghe dimidiate, così appunto da rendersi inetto a tutelare l’interesse italiano (Ursula von der Leyen ha avuto l’indelicatezza di scriverle in inglese, quelle deleghe, non in romanesco e nemmeno in vernacolo padano, e forse per questo non si sono accorti che Gentiloni ne ha un pacchetto anche più ampio rispetto al predecessore).
Per non dire dell’incalcolato ma inevitabile effetto screditante determinato dalla “querelle” (pronunciato come si scrive, “cuerèlle”, con la sua brava “u” e con la sua bella “e” finale, dall’europarlamentare leghista Antonio Rinaldi), la bella scena dello Stato membro che contesta la Commissione europea contaminata dal lavorìo subdolo del congiurato che svende il proprio Paese. Intendeva questo, Giorgia Meloni, quando annunciava che con il suo arrivo sarebbe finita la pacchia a Bruxelles?