La riforma giustizia
Indagini preliminari e giurisdizione: è questa la separazione da fare
Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri non è la strada per assicurare maggiori garanzie ai cittadini. Va invece interrotto radicalmente il circuito opaco di corresponsabilità tra il gip e il pm
Giustizia - di Alberto Cisterna
Non c’è da crederci, ma chissà. Che la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri nella versione hard proposta dalle Camere penali, e solo in parte mitigata dalle componenti più garantiste della maggioranza, possa superare il vaglio parlamentare pare onestamente difficile. Non è certo un problema di numeri, se ai voti del centrodestra si sommassero quelli dell’ex-Terzo polo la riforma passerebbe tranquillamente, ma è abbastanza evidente che la maggioranza non sia compatta sul punto e che la premier non vuole “rogne” con le toghe all’approssimarsi di una stagione politica complessa e incerta.
Probabilmente si partirà con dozzine di audizioni, pareri, interlocuzioni, mediazioni, passi in avanti e fughe all’indietro. Se la montagna non partorirà il topolino, non è detto che, alla fine, non dia alla luce un coniglio, ossia una riforma pavida, pasticciata, indecisa, ondivaga. Sia chiaro: la separazione delle carriere, in sé considerata, è stata già acquisita da almeno un decennio e più e questo lo sanno tutti. I passaggi dal ruolo giudicante a quello inquirente e viceversa sono pochissimi e, ormai, ci sono giudici e pubblici ministeri che non cambierebbero mai le proprie funzioni e che preferiscono non mutare pelle. Il ché sia chiaro è e sarà un problema enorme per la giustizia italiana. Non può esserci una cultura della giurisdizione distinta da quella dell’investigazione e, piuttosto, dovrebbero crearsi osmosi formative più salde con la professione forense, piuttosto che pensare di spacchettare l’ordine giudiziario.
Anche a praticare un taglio netto, una cesura decisa con due Csm, due ordini, due procedure di reclutamento, non sarà questa la strada per dare maggiori garanzie ai cittadini. L’avvocatura penale pretende, a ragione, una completa equiparazione con l’accusa innanzi al giudice terzo e imparziale, ma questo non si ottiene pensando di “degradare” i pubblici ministeri al ruolo di avvocati della polizia. Perché è inutile girarci intorno, un pubblico ministero isolato dalla giurisdizione non può che finire definitivamente nel circuito della polizia, appiattendosi (come già spesso avviene) al ruolo di “copia e incolla” di informative di reato da inoltrare al giudice cautelare o a quello delle intercettazioni o, sotto forma di abnormi “memorie”, persino al giudice del dibattimento, consumando la propria funzione in quella di succubo patrocinatore delle condanne ispirate dalle indagini.
Questo, tuttavia, non vuol dire arretrare rispetto al principio della piena parità tra accusa e difesa, imposto dalla riforma costituzionale del 1999 e da un nugolo di convenzioni internazionali, che in effetti in Italia attende da troppo tempo una piena attuazione. Lo snodo processuale in cui più acute sono le fibrillazioni dell’auspicata terzietà – sarebbe ipocrita negarlo – è quello delle indagini preliminari. La circostanza che il pubblico ministero, un po’ pilatescamente, si limiti a chiedere la cattura degli indagati o l’attivazione di intercettazioni o l’acquisizione di tabulati e rimetta al giudice la decisione ha creato un circuito opaco di responsabilità. Anzi di corresponsabilità tra giudice per le indagini preliminari (gip) e pubblico ministero (pm) che deve essere interrotto, e con una certa dose di radicalità e coraggio.
Troppo spesso alcuni pubblici ministeri si fanno scudo della circostanza di aver “solo” richiesto la cattura di indagati e che la decisione non è stata la loro; per cui quando i malcapitati sono assolti, se non scarcerati a distanza di poco tempo dai provvedimenti coercitivi, il conto – dicono – deve essere presentato al gip. Si è generato un perverso, e poco limpido, piano inclinato che dalla polizia giudiziaria, attraverso un pubblico ministero “copista”, attinge direttamente alla sfera di responsabilità del gip (dedito in qualche caso anche lui alla confezione del medesimo collage con alcune minuscole varianti) il quale – egli davvero – ha da auspicare e perorare che i colleghi del tribunale del riesame abbiano comprensione per il suo lavoro e non lo castighino in modo troppo severo.
E’ stata la contaminazione delle indagini preliminari (da concepire in origine, secondo molti studiosi, come una mera fase amministrativa) con il controllo giurisdizionale che genera quasi tutti i problemi che sono lamentati dall’avvocatura penalistica italiana la quale, tuttavia, ha da muoversi in una strettoia tutt’altro che agevole. Non può abdicare al controllo giurisdizionale nella fase delle indagini perché teme potentemente un pm svincolato (come nel Codice Rocco) da qualsivoglia verifica sugli atti più pervasivi che connotano le investigazioni (archiviazione, misure cautelari e captazioni). Ma d’altra parte l’avvocatura ha visto sostanzialmente fallire ogni tentativo di rafforzare le guarentigie difensive in quella fase processuale, da ultimo con la farraginosa e impraticabile riforma Cartabia in tema di iscrizione nel registro delle notizie di reato.
Ha innanzi a sé un Moloch di cui non sa e, in fondo, non vuole disfarsi; un ircocervo irriconoscibile e inemendabile. La soluzione radicale sarebbe quella di portare la giurisdizione fuori dal perimetro delle indagini preliminari prevedendo che il pm possa da solo intercettare o possa persino assoggettare a un fermo “breve” gli indagati con alcuni semplici precauzioni: a) un potere di cattura (come nella fase transitoria tra vecchio e nuovo codice nel 1989) limitato a 20 giorni al massimo; b) la collocazione dei fermati, salvo casi eccezionali, in strutture di detenzione domiciliare con braccialetto elettronico (l’idea delle caserme dismesse non suona male); c) la sottoposizione rapida a un collegio (sul modello del Grand Jury) del materiale raccolto (intercettazioni, perquisizioni, sequestri, interrogatori et cetera) affinché, nel pieno contraddittorio delle parti, giudici terzi e incontaminati ne stabiliscano l’utilizzabilità processuale e, soprattutto, la sufficienza ai fini di un dibattimento o curassero i riti alternativi.
Se a questo si accompagnasse il divieto assoluto di pubblicazione dei nominativi degli indagati sino alla celebrazione dell’udienza di conferma e convalida delle attività del pm, si potrebbe avere una cornice meno precaria e, forse, più affidabile di quella oggi tanto contestata. In altre parole, si tratta di evitare che l’accusa nella fase delle indagini possa vedere assegnato il sigillo della legittimità processuale agli atti che richiede, coprendoli sotto l’ombrello protettivo della giurisdizione. Fatto, questo, che notoriamente è la fonte di tante proteste delle difese che vedono – ad esempio – quasi mai contestata nei successivi gradi del processo la legittimità delle intercettazioni disposte da un gip.
Può darsi che questa sia la vera separazione da attuare, abbandonando un modello di indagini solo in teoria perfetto, ma che, nella sua concreta applicazione (dopo oltre 30 anni), può probabilmente dirsi che abbia causato danni e sollevato questioni di enormi proporzioni. Separare pm e gip – secondo lo schema in auge in questi tempi – non migliorerà in alcun modo questa situazione, almeno sino a quando il pubblico ministero non tornerà ad assumersi per intero la responsabilità degli atti che compie e che, ora, solo sollecita e propone. Una diarchia pericolosa che non genera garanzie e che ha affrancato qualche pm dal peso di iniziative talvolta avventate.
In chiusura: nessuno immagini che un’accusa priva di controllo giurisdizionale preventivo sia più pericolosa o più nociva, quando il pm avesse da assumersi gravi e grandi responsabilità in proprio, o con il procuratore della Repubblica, una certa “paura della firma” prenderebbe corpo anche nei più agguerriti anfratti dell’inquisizione.