Femminicidi e pene

Più galera contro i femminicidi: la ricetta di Delmastro è un’illusione

L’idea secondo la quale la pena funzioni come deterrente è fallita in questo campo come in tutti gli altri. E allora? Io dico: sanità e psichiatria

Giustizia - di Alberto Cisterna

22 Agosto 2023 alle 15:30

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Più galera contro i femminicidi: la ricetta di Delmastro è un’illusione

In un paese che non conosce l’amaro calice dei bilanci e non riesce a puntare lo sguardo verso il passato per evitare nel futuro i medesimi errori, è difficile dire se la legge sul cosiddetto “Codice rosso” abbia o meno sortito qualche effetto positivo. In un’ottima intervista, un magistrato prestigioso, come Paola Di Nicola Travaglini, ha preso atto del drammatico fallimento di quella legge quanto meno in relazione ai casi più recenti di donne uccise malgrado avessero denunciato i loro persecutori, molestatori, picchiatori.

È chiaro che lì qualcosa non ha funzionato ed è evidente che ministero della Giustizia e Csm avranno modo di accendere un faro per verificare se quei femminicidi siano episodi purtroppo sfuggiti a ogni accorta diligenza ovvero se qualcuno ha mancato nella catena di comunicazione e di attuazione del protocollo previsto dal Codice. Ma può anche darsi che tutta l’impostazione della legge sia sbagliata e che le recenti proposte del Parlamento per una sua ulteriore modifica non riusciranno a evitare un ulteriore, clamoroso fallimento.

La consigliera Di Nicola ritiene che la legge abbia comunque offerto un rimedio a tante situazioni a rischio, prevenendo la commissione di ulteriori, più gravi epiloghi. È una considerazione confortante che, inevitabilmente tenuto conto che si tratta di una contabilità “negativa”, manca di una riprova che possa far comprendere se la rarefazione della violenza non sia altro, in molti casi, che una sua astuta, repressa postergazione. Il meschino rinvio di un’esecuzione visceralmente concepita, perseguita, immaginata come ineluttabile.

È vero, come si sostiene nell’intervista, che occorra agire sulla formazione dei magistrati e della polizia giudiziaria anche al fine di evitare che subdole o inconsce pulsioni sessiste prevalgano nella ponderazione, soprattutto iniziale, delle denunce e delle dichiarazioni. Ma sullo sfondo forse, c’è altro e di parecchio più preoccupante. Come per gli incendi, per gli omicidi stradali, per le risse tra giovani (e in molti altri casi), anche per la violenza di genere la concezione classica per cui nel diritto penale, la sanzione sarebbe destinata a esercitare una funzione dissuasiva, generale o special preventiva, appare giunta al capolinea, sino a varcare le soglie della propria bancarotta ideologica.

Un fallimento di portata epocale con il quale sia le frustrazioni giustizialiste che le preoccupazioni garantiste si rivelano ancora incapaci di fare i conti in modo appropriato. Non si riescono a tracciare nuove vie, a intercettare nuove soluzioni se non irrigidendo le pene, anticipando la soglia della rilevanza penale, fagocitando la prevenzione nel perimetro di nuovi reati. Strade che il Codice rosso ha in parte già percorso e che il progetto di riforma Buongiorno, non senza coerenza, intende ulteriormente battere nella convinzione che inasprire, tracciare, monitorare possa arginare la strage di donne che, con cadenza impressionante, si consuma negli ultimi anni.

Se la prospettiva del carcere, finanche la minaccia dell’ergastolo (grazie a una giurisprudenza che dilata la contestazione della premeditazione) non riesce a porre un freno alle violenze e agli assassini è giunto il momento di interrogarsi in modo profondo, non retorico, né demagogico o emozionale, secondo quali assi cartesiani si debbano descrivere le relazioni interpersonali di genere nella società italiana del terzo millennio. In una recente sentenza di assoluzione dall’accusa di stupro di gruppo, i giudici del Tribunale di Firenze hanno additato gli imputati come «condizionati da un’inammissibile concezione pornografica delle relazioni con il genere femminile», concezione che li ha indotti a ritenere sussistente il consenso della vittima.

Di fronte a questa nitida fotografia del flettersi della coscienza sociale verso modelli inadeguati di interazione tra i generi – capaci addirittura di condizionare le aule di giustizia nell’affermazione circa la sussistenza dei reati – è forse giunto il momento di approcciare la questione anche da altri versanti. Messa da parte la sempre auspicabile palingenesi culturale della società – di cui, però, non si rinviene traccia – è probabilmente giunto il tempo di considerare determinate categorie di comportamenti illeciti per quel che essi effettivamente esprimono ovvero gravi devianze psicologiche, se non psichiatriche da curare, correggere, attutire, mitigare.

È evidente che è di ostacolo a questa impostazione un retaggio storico importante, pesante come un macigno che guarda con giusto sospetto a qualsivoglia generalizzazione o diffusione dell’approccio terapeutico perché, nel tempo, esso è stato adoperato come strumento di repressione del dissenso, delle minoranze, come forma di crudele eugenetica sociale e politica (la tragedia racconta da Vladimir Bukovskij e Semen Gluzman, “Guida psichiatrica per dissidenti”, 1979).

Ma si dovrà pur serenamente discutere se sia lecito – in una società che registra una spesa annua per ansiolitici e ipnotici-sedativi per centinaia di milioni di euro (v. “L’uso dei farmaci in Italia”, Rapporto Aifa 2022, pag. 318 ss.) e che conosce il discontrollo psicologico alla base di tanta violenza – marginalizzare il disagio psichiatrico dei carnefici che uccidono mogli, fidanzate, compagne, talvolta madri e lasciare, come sempre, ai giudici il compito di coniugare la repressione carceraria con un incerto percorso trattamentale e terapeutico. Per poi restare impotenti davanti alle croci e lamentandosi semmai di qualche scarcerazione o mitigazione di pena.

Ecco il femminicidio, il corpo delle donne – come accade praticamente sempre nella storia dell’umanità – è di nuovo la pietra d’inciampo di culture retrograde e di impostazioni ideologiche destinate al fallimento. Pena, processo, carcere (anche e soprattutto qui) mostrano la loro irrecuperabile arretratezza che imporrebbe scelte diverse, magari per dire anche una profonda riscrittura e rimodulazione della disciplina del trattamento sanitario obbligatorio (Tso), oggi in gran parte inutile e adoperato in modo talvolta discutibile, che potrebbe costituire, sulla scia della legge Basaglia, l’occasione per garantire al profondo disequilibrio emotivo e psicologico dei carnefici una prospettive di cura e di mitigazione del disagio capace di salvare vite innocenti.

22 Agosto 2023

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